I titoli dei quadri

Alexandre Jakovleff, Autoritratto (1917)


Sfogliare pagine web dedicate alle riproduzioni digitali di opere di Pittura è uno dei miei passatempi preferiti, mi piace gironzolare per le stanze di un'immensa pinacoteca virtuale come se fuori stesse piovendo o fosse saltato l'impegno che mi avrebbe costretto a correre e a preoccuparmi. Da qualche tempo però mi sembra stia avvenendo una specie di rivoluzione nella pubblicazione dei titoli delle riproduzioni. Quasi sempre sono tradotti in inglese, anche quelli italiani, anche i titoli dei dipinti più importanti che hanno diffuso in tutto il mondo parole come "Madonna" , "Paesaggio" o "Capriccio". Niente da ridire su una traduzione inglese che affiancasse il titolo originale, essendo questa senza dubbio la lingua ufficiale del mondo digitale, ma i titoli in lingua originale dei dipinti sono anch'essi una lingua ufficiale, quella della ricerca del Bello e della sua trasmissione. A questo proposito mi chiedo: chi ha creato i titoli dei dipinti più celebri, della Pittura italiana o Fiamminga ad esempio, chi ha deciso quali parole avrebbero accompagnato un'opera nel suo cammino attraverso i secoli? Mercanti d'Arte, forse, prima di tutti e poi collezionisti, appassionati, esperti... Molti titoli sono piccoli capolavori letterari, esercizi di stile, prendete ad esempio la frase "Compianto sul Cristo morto"...è quasi un verso poetico, ha in sé una forza espressiva indescrivibile. Non so dire perché, ma sono quasi certa che siano pochi, davvero pochi i titoli inventati dagli stessi autori dei dipinti, i titoli sono parole, roba per narratori, drammaturghi o, appunto, poeti. Forse un discreto contributo può essere venuto dai committenti, non tanto nel chiedere a un artista di dipingere una scena o un ritratto, quanto nel mostrare quell'opera ai propri amici o agli ospiti facoltosi. In ogni caso i titoli giunti fino a noi prima dell'era digitale sono un piccolo patrimonio, bisognerebbe creare un archivio che li contenga tutti, una stanza virtuale dove anche fra cinquecento anni chi vorrà potrà ritrovare l'eloquenza, l'espressività, la poesia dei titoli dei quadri, la sintesi della bellezza dipinta racchiusa in un piccolo mucchietto di parole.

"Questo pezzetto di carta, che poi sono anch'io..."


 
Francesco di Cristofano detto il Franciabigio, Ritratto di un gentiluomo (1522)


Cadenza

Questo pezzetto di carta,
che poi sono anch'io,
ogni tanto un sant'uomo lo raccoglie
e ci scrive, sovrascrive, una grazia.
Ma oggi è preso dal vento e da questa luce,
luce gialla certo, ché siamo in autunno.
Quanti ce ne vorrebbero di pezzi di carta
per comporre il mio io
e giusto Dio ci vorrebbe
a fermarmi nel vento.


Sergio Ladu


Per gli amanti della musica antica Sergio Ladu non ha bisogno di presentazioni, né lo ha la sua voce baritonale dal timbro luminoso ed elegante. Personalmente l'ho scoperta per caso, come accade per le cose più sorprendenti della vita, e mi ha colpito subito per la bellezza del timbro e per la capacità di modularsi sull'estensione di ogni singola parola. Ho scoperto poi dell'esistenza di una produzione poetica di questo artista e mi è sembrata la spiegazione più naturale del grande talento con cui Sergio Ladu riveste della propria voce ogni singola parola nel canto. Esiste di questa poesia, Cadenza, una versione musicata dal compositore francese Michel Bosc, in cui Ladu legge in forma di canto il testo della poesia. Dico legge, perché a me sembra una vera e propria lettura, non solo un testo di struggente bellezza cantato con sapienza e partecipazione. Una lettura personale, profonda e misteriosa, parallela a quella con cui ognuno può addentrarsi fra queste righe e meravigliarsi, sobbalzare quasi, trovandosi all'improvviso di fronte alla cristallina trasparenza di certi passaggi, di certe immagini che spalancano universi immensi dentro lo spazio di un testo così breve. E quel verso di indescrivibile bellezza con cui il testo si apre: "Questo pezzetto di carta, che poi sono anch'io..." alla fine della lettura diventa la condizione di ognuno, la mia, e rimane addosso una specie di attesa per quel piccolo prodigio quotidiano, per quella grazia scritta, sovrascritta.




Sergio Ladu, Cadenza
Musica di Michel Bosc
Sergio Ladu, basso-baritono
Maria Silvana Pavan, pianoforte


Passu torrau

Da ragazzina con l'insegnante di italiano andai a teatro a vedere i "Sei personaggi" di Pirandello, al "Duse" di Genova. Tornai a casa che non ero più la persona che ero prima: mi innamorai perdutamente del teatro, di Warner Bentivegna (che recitava in quell'allestimento) del velluto rosso e della voce come strumento musicale. Per moltissimi anni ho continuato a valutare le persone prima di tutto dalla loro voce e ho mantenuto la convinzione che come i topolini di Hamelin avrei potuto anch'io seguire la bellezza di una voce fino a perdere la strada di casa. Poi la vita mi ha costretto a rivedere questa impostazione e le esperienze a rinunciare ad ascoltare la voce della gente come facevo prima. Mi sono adattata, ma la mia anima, il mio spirito, la mia immaginazione non hanno mai accettato davvero di non avere più un "pifferaio di Hamelin" da seguire. Può sembrare incredibile, ma ho patito per questa mancanza, finché un giorno ho conosciuto il suono dell'organetto sardo e la melodia del Passu torrau e quel senso di rinuncia, di tristezza infinita che avevo dentro è svanito di colpo. Potrei rimanere ore ad ascoltare un organetto sardo suonare il Passu torrau o il Ballu tundu, qualcosa dentro di me, io stessa, non lo so, si lancia giù per le scale musicali percorse dall'organetto e poi si alza, vola, portato in alto dalle variazioni di tonalità e di tempo. Perdo la strada, ma non me ne preoccupo, forse perché alla fine mi guardo intorno e vedo la bellezza di quest'Isola incredibile. Non riuscirò mai a scrivere quanto è bella la Sardegna. L'unica cosa che so dire con precisione è che molte delle cose che cerco, che mi mancano o mi sono mancate a lungo, si trovano lì.


Muretti a secco



"Il mare è appena increspato 
e piccole onde battono 
sulla riva sabbiosa. 
Il signor Palomar è in piedi
sulla riva e guarda un'onda. 
Non che egli sia assorto
nella contemplazione delle onde. 
Non è assorto, perché
sa bene quello che fa: 
vuole guardare un'onda 
e la guarda."

Questo è l'inizio di Palomar, libro di indicibile bellezza, album fotografico o forse, meglio, raccolta di immagini schizzate a penna, istanti di un signore solitario ma non solo. Lo rileggo spesso, è un libro musicale. Si sentono leggendo tutte le declinazioni di tempo che sono servite a comporlo: tempo di scrittura, tempo ritmo musicale delle parole e tempo per sceglierle, una ad una. Si sentono perfino gli intervalli di tempo fra una parola definitiva e l'altra, le pause impiegate per pesare, soppesare, squadrare le parole, come pietre di un muretto a secco, uno di quelli che fanno parte del paesaggio di Calvino e del mio, incastrate con estrema pazienza, sfruttando ogni punto di congiunzione, ogni possibile combinazione. Mi piace moltissimo leggere e rilegge l'inizio di Palomar. L'ho trascritto inserendo le andate a capo pensando alle pause caratteristiche del modo riflessivo e ligure di parlare di Italo Calvino, conosco bene quella cadenza e i silenzi precisi che prevede, ed è venuto fuori un passaggio di poesia. Se avesse vissuto più a lungo forse avrebbe scritto in versi, disponendo le parole secondo le leggi cosmiche della metrica. Le avrebbe solo radunate in costellazioni, giacché sono già fissate in ogni suo testo come sciami di stelle in un universo ancora da esplorare.

Che fine hai fatto... Keaton?





Oggi ho ripensato a un libro che ho acquistato secoli fa, un libro dedicato a Buster Keaton fatto interamente di fotogrammi dei suoi film. L'ho cercato nella libreria senza trovarlo. Eppure so che è lì, tutti i miei libri sono lì, non ne manca uno. Lo cercherò ancora più tardi. Cercarlo e non trovarlo mi ha fatto ricordare una canzone di Guccini che mi ha sempre affascinato, per via di quel ritornello che dice "...Keaton , ah..Keaton, che fine hai fatto Keaton? Se mi vedessi col mio trench stile Bogart, Keaton, sotto la pioggia che ti vengo a cercare..." e a me è sempre sembrato, e ancora sembra, voglia dire che andare in cerca di Keaton sia cercare di recuperare la propria capacità di sognare. Così mi sono ritrovata a cantarlo mentre scorrevo i titoli dei libri e tentavo di penetrare nelle seconde e terze file della nostra caotica libreria. Che fine hai fatto Keaton? Se mi vedessi col mio trench stile Bogart, Keaton, sotto la pioggia, che ti vengo a cercare...