Gioconda

Monna Lisa

Ieri sera ho visto su un canale televisivo francese un bellissimo documentario su Venezia. Titolo: " Ils vont sauver Venise", salveranno Venezia, e quel pronome, "Ils", era decisamente personale e con funzione di soggetto. Il filmato infatti era un collage di diversi modi, molto personali, molto veri, di altrettanti veneziani altrettanto veri, di salvare un pezzetto di Venezia dalla morte annunciata;  così c'era una contessa ristoratrice per passione e per capacità tutta italiana di reinventare il suo patrimonio culturale e familiare; il proprietario di un palazzo sul Canal Grande in lotta con l'erosione dell'acqua salsa; una campionessa di voga con i suoi piccoli allievi del campo estivo cui insegnare ad essere un pochino veneziani; un giovane campione sportivo con il suo progetto di creare un giardino su una delle isole aabbandonate della Laguna; una libraia camminatrice col suo progetto di mostrare la Venezia vera; i veneziani in protesta attiva contro l'ingresso delle grandi navi nel bacino di San Marco. Le immagini erano splendide, persino quelle che mostravano il traffico autostradale che agita il Canal Grande, persino quelle che ritraevano i turisti spiaggiati come otarie sui gradini della " Madonna della Salute". Nonostante questo, però, per la prima volta non ho pensato solo a Venezia ammirandole, ma all'Italia intera o meglio: a noi italiani e alla nostra attuale condizione culturale, perchè è chiaro: sostenere Venezia, restaurarla, difendere le sue fondamenta millenarie, per un veneziano è prima di tutto sostenere e conservare la propria identità. E poi è incredibile quanto Venezia sia oggi l'immagine più esplicita dell'italianità, non solo vista da fuori, ma soprattutto da dentro. Gli ultimi venti anni del nostro Paese sono stati una festa in costume: maschere e champagne nei saloni affrescati, luccicanti di vetri e di dorature, di specchi solo leggermente macchiati dal tempo. Gli echi della spensieratezza, delle musiche inebrianti, degli scherzi villani si potevano sentire ancora, fino a poco tempo fa, smarriti all'incrocio dei corridoi, dei canali, dei rii italici e c'è chi giura che erano meglio, molto meglio del silenzio assordante che ne è seguito e che ancora ci stordisce. Siamo un Paese di gente in preda ad un drammatico dopo-sbronza. Molti hanno già superato la fase di intontimento, spinti da necessità impellenti che non lasciano troppo tempo all'indecisione; altri, più sfortunati perché vittime di postumi asintomatici, ancora soffrono di nostalgia, ancora guardano verso quei saloni illuminati, mentre la marea di bottiglie rotte, di " scoasse" ineluttabili galleggia quasi al livello del ritratto dell'ultimo grande Doge. Qualcuno insiste nel dire che è stato tutto un gioco, uno scherzo di Carnevale: bautte veneziane, maschere che nascondono servi e padroni in una promiscuità che si crede democrazia, in un'illusione che si nutre di fantasia. E tanta ce ne vorrà, di fantasia, per ripulire i ponti, le pietre, la graniglia veneziana ricoperta di pattume. Ci vorrà coraggio per scendere sotto il livello di un'acqua putrescente, marcia, a riconsolidare fondamenta millenarie, perchè l'idea di identità non si sbricioli sotto il calpestio frenetico dello scoccare della mezzanotte. Sarà come stare su una caorlina davanti alla mostruosa stazza di una nave da crociera, e dimostrare un altro teorema della Verità. Oppure vendere tutto: la nostra Storia migliore, la nostra capacità innata di impastare Bellezza farina acqua e sale, il nostro genio ed anche la nostra preziosa fantasia, la nostra "italianità" e poi, molto più tardi, cercarla e trovarla conservata nei musei degli altri, intatta, grandiosa e soffrire e lamentarci e piangere come noi soli, in tutto il mondo, siamo capaci di fare.


 

In cima

Photo:  orionmax


Ieri sulla sommità di uno dei cipressi che affiancano il sentiero che percorro ogni giorno si è posata una cornacchia. Sembrava un esercizio di equilibrismo: il suo corpicino dall'apparenza così pesante, così poco leggiadra, aggrappato per pochi secondi alla cima esile, precaria, del cipresso. Mi ha fatto pensare ad una pennellata di nero involontaria e al peso specifico di certi pensieri cupi, che arrivano volando e ci si accorge del loro peso reale solo quando si ha modo di vedere che non sanno stare in cima, lassù in alto, per più di qualche secondo. Le cornacchie qui da noi passeggiano nel letto del torrente, quando non è in piena. Camminano come passanti svogliati e non interessano nessuno. Certo che non lo so, per quale ragione una cornacchia provi ad atterrare sulla cima di un cipresso...ho cercato in rete una fotografia e l'ho trovata e chi l'ha scattata spiega di come la bestiola ritratta si posi spesso sulla cima del cipresso di fronte al suo terrazzo.  Quindi ora so di due cornacchie almeno, che si cimentano in questo spettacolo circense, ma certo non so perchè lo facciano, il che mi invita ad immaginare che la ragione stia nell'esercizio stesso. Mi piace pensare che in questo modo la cornacchia si prenda una meritata rivincita sul resto del mondo, mostrando a tutti e soprattutto a sé stessa, che il trinofo è un fatto molto privato. Chissà che cosa pensa, dopo, quando si stacca un po' maldestra dalla cimetta ricurva verde chiaro e va a posarsi sul campanile della chiesa lì vicino. Chissà se mi vede, se tiene conto di me, del mio passaggio, se sa di poter fare qualcosa che per me è impossibile e della struggente suggestione che mi regala, mentre assisto al suo spettacolo: che la fragilità sta sempre sulla cima, al di sopra di ogni cosa.



"...che sei venut'a quest'hora..."



Dunque...ci ho pensato bene: la rete permette, con un po' di fortuna, di "incontrare" la sensibilità di altre persone e di dialogare con essa. E allora...perchè non dovrebbe essere possibile con una città? Se è possibile, da qui, intuire le variazioni di colore che fanno dell'animo umano la più bella creazione della Terra, perché non dovrebbe esserlo ascoltare, da qui, la voce sommessa di una città? Incontrarla per caso, quasi inciampare nelle sue pietre; gettare su di essa uno sguardo un po' distratto e accorgersi che c'è una somiglianza o forse solo che si ha desiderio di ascoltare ciò che racconta; non averla ancora vista e pregustare con estrema sobrietà il momento in cui ci si incontrerà, nel segreto assoluto di una via affollata. Una città è come una casa: un tavolo, una sedia, un'imposta aperta a metà, non sono dettagli disseminati a caso: spiegano, descrivono passaggi, decisioni o indecisioni, partenze o ritorni, attese. Così è per una città, per questa città: spigoli come spartiacque e mura, finestre, incroci fissi come muri maestri, intoccabili strutture di una storia. A certe città, a questa, ci si dovrebbe avvicinare in volo e atterrare solo dopo un ampio giro, uno sguardo d'insieme capace di fissare bene in mente i confini della sua forma, la luce dominante, il buio, quanto di più lontano è in grado di trasportare l'aria fino al più nascosto dei suoi angoli. Sorvolare senza fretta, imparando a riconoscere ogni ruga, ogni anello, ogni sussulto umano nel suo tempo. Poi scendere, atterrare finalmente nel punto esatto in cui prende vita la sua prospettiva più eloquente e camminare, attraversarla senza sosta finché i piedi siano in grado di orientarsi da sé e la mente e l'anima possano permettersi il sollievo di essere una cosa sola. Poi fermarsi, in un punto preciso, inspiegabilmente scelto da prima, prima del volo, prima dell'inciampo e riposarsi.

 
La Bella Noeva
Marco Beasley e Ensemble Accordone