Totòsofia



...tazza larga di caffé macchiato, fetta di torta al cioccolato, finestra spalancata su una magnifica mattina di settembre: serena, nuvolosa, quieta, ventosa, dorata e salmastra come solo a settembre può esserlo questa valle rinunciataria al traguardo del mare. Assaporo ogni percezione di questo istante prezioso e solo mio ed ecco che improvvisamente mi sento parte di uno spot pubblicitario. Pochi attimi ancora e una constatazione mi si srotola davanti come un tappeto volante. Ed io ci salgo su, naturalmente! Da quando mia figlia ha cominciato ad affacciarsi al mondo intorno, in cerca di nuovi modelli da mettere in discussione, la visione critica del piccolo schermo in famiglia si è fatta via via più attenta e serrata. Tuttavia non ci è voluto molto tempo per capire che, a diffrenza di "prima"( limite temporale di cui non tento nemmeno una descrizione più precisa) la pubblicità di un prodotto non è più volta a convincerci a spendere denaro, ma a sottrarci sistematicamente e quotidianamente quello che "prima" era il presupposto al nostro bisogno di acquistare un prodotto: un desiderio o necessità da soddisfare. Come sono cambiati i messaggi pubblicitari! Gli spot di un tempo, che decantavano le proprietà uniche, inimitabili di un prodotto, sono stati soppiantati da qualcosa che non saprei definire in altrettante parole. Potrei descriverlo come...la rappresentazione della nostra infelicità e conseguente eliminazione della stessa al subentrare di quel dato prodotto. Però la prima parte di questa definizione è quella che pesa di più in uno spot, quella cui viene dedicato il massimo impegno e la maggior parte dello spazio commerciale. Ne ho avuto conferma quando ho cominciato a rispondere alle domande " da grande" della mia ormai adolescente figlia. Domande esistenziali, importanti, bisognose di risposte nette che abbiano in tutto e per tutto l'apparenza di certezze assolute, perchè gli adolescenti hanno bisogno di certezze per sentirsi sicuri e per poterle fare a pezzi. Lo so bene, sono stata adolescente anch'io. Così mi sono ritrovata a rispondere a queste domande bellissime, immense e abisssali, con parole altrettanto belle ma...nelle quali avvertivo una sorta di "già sentito e pure troppo". Ho cercato di capire dove e ho realizzato che si trattava della pubblicità. Provare a dire ad una figlia ( in due parole soltanto, perchè i figli sono un uditorio esigente e facilmente incline alla noia) che la sua più grande libertà sta nell'immaginare il suo futuro, porta quasi inevitabilmente a dire:- Immagina, puoi...- Tutto ciò è agghiacciante e disrienta il mio istinto all'educazione più dell'atteggiamento imbronciato e ipercritico della mia piccola ribelle e, come se non bastasse, esempi di tale raggelante coincidenza se ne possono trovare a bizzeffe. Questo mi irrita talmente che potrei cominciare a parlare un italiano alternativo, inventando neologismi, stravolgendo le parole perché riprendano il loro posto e soprattutto riprenda posto in me e di conseguenza in mia figlia, la sensazione che le parole che dico mi appartengono, come i pensieri. Non escludo di arrivare a farlo: Totò lo fece molto prima e in modo molto semplice dopo tutto; potrei arrivare a farlo anch'io, attingendo alla sua genialità. Nel frattempo sorseggio il mio caffé, assaporo la torta al cioccolato e guardo fuori, concedendomi una mossa del tutto imprevedibile da parte di chi confeziona messaggi pubblicitari: il silenzio. Devo assolutamente raddoppiare i miei sforzi nell'insegnare a mia figlia quanto esso sia prezioso e non commercializzabile e quanto sia in realtà un potente veicolo di comunicazione. Soprattutto del pensiero. Soprattutto fra neurotrasmettitori e sinapsi. Nel frattempo Totòsofia come se piovesse e calma, assoluta calma; anche perchè, parafrasando appunto il Totòpensiero, non è il caso di arrivare a colluttarsi, soprattutto per chi come me non ama il colluttorio.

2 commenti:

Patzy ha detto...

Ciao, Red! Molto interessanti tutte le questioni che sollevi nel tuo sito. A volte, a causa della differenza idiomatica, nonostante capisco italiano, per ragioni culturali non ti posso seguirti come vorrei. Comunque, anche io ho un figlio adolescente, e in effetti la questione della pubblicità e la sua influenza sulla fiducia che i giovani dovrebbero sviluppare è un argomento cosí complicato ogni giorno. É sempre più difficile parlare con i giovani da parte di noi, adulti, come se sempre dovessimo giustificare quello che noi stessi facciamo. Un grande abbraccio. (spero che si capisca il mio italiano).

Barbara ha detto...

Sono assssssolutamente sicura che lo farai. Creare un linguaggio per le persone che ami. Per dire cose che siano vere, e vostre.
Nel frattempo, visto che il processo potrebbe essere lungo, prova ad usare il genovese: per le questioni di pancia è efficacissimo. Se voglio trasmettere un'emozione, uno stato d'animo, o inquadrare una situazione, niente è meglio di una frase lapidaria in genovese stretto. È nel DNA, perciò, anche se i miei figli non comprendono il significato esatto delle parole, ne colgono perfettamente il senso, senza che nessuna operazione di marketing possa insinuarsi a metterci del suo, nemmeno quella patetica dell'operatore telefonico...
Ah... ti m'ou fae in santu piaxei? Ti voe levali 'sti captcha ch'i sun in'a ruttûa de cugge e i nu servu a in be... a ninte?