Le parole

Photo  Jarda 75


Mi hanno rubato le parole. Deve essere per questo che ho così tanto bisogno di ricordare. Nella mia memoria personale quasi tutte le parole che ogni giorno mi vengono scagliate contro dai media e da chi ne dispone mantengono il loro significato originario, che a me sembra essere più comprensibile e calzante. Penso a vocaboli come povertà, solidarietà, speranza, pace, amore, Italia, democrazia, famiglia, onestà, uguaglianza...Solo ieri ho ascoltato nel corso di un telegiornale la notizia circa i buoni propositi di un probabile capo di governo a proposito della legge elettorale: il punto nodale della notizia era la parola "cambiamento", si parlava della necessità di cambiare una legge elettorale inadeguata dal punto di vista democratico. Questa legge viene tutt'ora citata con un appellativo ben preciso: legge porcellum. Nessuna voce dai media ha mai calcato su questo appellativo, per evidenziarne la volgarità. 
Le parole non sono più mie. Entrano in flussi prestabiliti appena uscite dalla mia bocca: se avvicinandomi ad un gruppo di amici chiedo di Silvio, la conversazione prende subito una certa piega: è come se le parole fossero portatrici sane di un virus, che attacca i concetti espressi dalle parole stesse, modificandoli fino a condurre il discorso verso una conclusione mai vicina a ciò che si voleva dire inizialmente e sempre di bassissimo profilo. Così, in questi giorni di teatrino forzato, cui cerco tuttavia di sfuggire a gambe levate, ho deciso di riprendermi il significato delle parole. Non è difficile, dato che la mia memoria personale ne è piena. Dovrebbe essere sufficiente affiancare quello che custodisco io a quello diffuso intorno: l'accostamento stridente mi aiuterà a decidere con quale dei due lasciar uscire dalla mia bocca le mie parole. Un po' come si fa con i vestiti e i loro colori. Legge porcellum è un accostamento davvero di pessimo gusto, capace di offendere il più eccentrico degli stilisti, non solo di moda. Equivale ad uscire in abito da sera, calzini senza elastico e ciabatte a forma di gnometta tirolese. Posso fare di meglio.

La cosa bella di questo esercizio di recupero stilistico, di miglioramento, è che ogni individuo può farlo a sua volta e in modo del tutto personale. La memoria collettiva di una Nazione è costituita dalla memoria individuale dei singoli che ne fanno parte. È un universo multicolore, ricco, creativo, in cui le parole sono fermate, appuntate su pareti e pannelli ideali con l'aiuto di facce, circostanze, avvenimenti simili, legati da un filo comune, ma sempre diversi e personali. Lascio qui una parola molto ascoltata in questi giorni, la scrivo con il significato che la mia memoria ha raccolto e conservato: è un significato profondo e incisivo che restituisce ad essa, a questo nome, tutta la sua bellezza.


Silvio

Silvio era uno zio di mia madre. Da piccolissimo il suo viso aveva tratti così dolci da mettere in imbarazzo i suoi genitori, che per non dover fornire spiegazioni circa quella femminiltà così mal riposta lo vestirono da bambina, lasciando che i suoi capelli crescessero in fluidi boccoli lucenti. La poliomielite tolse a tutti il dubbio del poi e Silvio crebbe finalmente da maschio, ma dentro un corpo disordinato, incline a deformarsi un po' ogni giorno, disubbidiente alle leggi naturali che regolano la crescita e lo sviluppo di un essere umano. Cresceva deforme nel corpo, ma nella mente era bellissimo, perfetto più di una scultura di Fidia. Silvio visse la seconda guerra, il fascismo, i rastrellamenti, con estrema lucidità. Quando le camicie nere vennero a prendere suo fratello e quasi uccisero sua madre per il dolore, lui reagì come un leone, certo che quelli che aveva di fronte fossero delinquenti comuni, ignoranti, ottusi, superiori solo per numero e capacità fisica. Nessuna di queste considerazioni lo trattenne tuttavia dal minacciare di ucciderli tutti, se non fossero usciti immediatamente da casa sua. Lui sapeva come trattare con le deformità. Ci era abituato. Era abituato a quelle gambe che non correvano mai a comando, alle mani che facevano altri percorsi prima di prendere un bicchiere, alle risate di quelli che non capivano e che la paura e l'ignoranza rendeva intolleranti, cattivi. Anche sua sorella a volte lo era. Silvio superò la sua infanzia apparentemente femminile, la guerra, la perdita della sua sorellina prediletta senza prendersela mai con nessuno. Aveva imparato che era inutile lottare contro ciò che non si muove, ma dentro di sè cresceva forte, intelligente, coraggioso oltre i limiti del suo corpo indisciplinato. Alla fine della guerra i partigiani, che avevano imparato a distinguere perfettamente l'uomo che si nascondeva in quel corpo infagottato, lo salutarono dicendogli che un mulo di nome Badoglio (bellissimo accostamento!) era stato legato ad un castagno in un punto preciso del bosco, più giù verso Cassana e che, se lui voleva, quel mulo era suo. Lui ovvimente accettò. Era un mulo molto alto, difficile da montare, una vera "barriera architettonica", ma Silvio ci saliva su passando per la propria intelligenza, così lo accostava ad un poggio o ad un sasso grande e saliva senza troppe difficoltà. I partigiani veri, quelli che avevano vissuto su quei monti o perso la vita lassù, avevano un debito di riconoscenza verso chi abitava quella casa, la casa di Silvio: vi erano stati sfamati, sostenuti, incoraggiati. Nelle settimane successive alla fine del conflitto i sopravvissuti scendevano giù come creature invisibili che avessero improvvisamente preso sembianze umane per essere presenti al miracolo per cui tanto avevano dato. Non tutti però erano partigiani. Alcuni, troppi, erano ladri, disonesti, opportunisti, che speculavano sulla Resistenza per guadagno personale. Erano riconosciuti da tutti, tacitamente ed erano gente del posto. Uno di questi, subito dopo la guerra, fu assunto dal Comune come vigile urbano e la sua funzione preferita era il controllo dei muli, che allora erano ancora un aiuto molto valido alle attività umane e la cui cura sottostava ad una legge fascista che prevedeva multe salatissime se il manto dell'animale veniva trovato anche solo leggermente scalfito. Alla fine della guerra, malgrado i bombardamenti, Levanto era ancora lì; il sole era ancora lì, insieme al cielo azzurro; Badoglio era ancora lì, col suo basto di carbone e Silvio in groppa e il "vigile urbano" andava loro incontro con aria severa ed arrogante, nella piazza principale del borgo, come se la guerra non ci fosse mai stata, come se niente esistesse oltre quella nuova divisa e quel mulo partigiano da controllare con velenosa attenzione. Levanto era abituata ad essere teatro: lo era stata di una guerra recente e non ebbe difficoltà ad essere palcoscenico della scena che stava costruendosi quella luminosa mattina. C'era anche il pubblico, che aveva già pagato, in silenzio, e che fino ad allora non aveva ancora potuto godere di quella parte dello spettacolo in cui il tiranno viene ridicolizzato e spinto fuori scena a pedate nel sedere. Così ci fu un silenzio da prima alla Scala, quando il "vigile" intimò a Silvio, "il deforme", "il debole", di scendere dal mulo perchè doveva essere verbalizzata una sanzione. Silvio sapeva che per scacciare a pedate un malfattore non serve scendere troppo in basso, così rimase esattamente dov'era, in groppa a quel mulo altissimo e fedele, con una cinghia in mano, di quelle con cui si fissano i basti, una cinghia provvidenziale. Rispose alla richiesta del "vigile" con uno sguardo che tradiva tutta la sua esultanza e gli si accostò declamando ad altissima voce, per il pubblico in attesa, che finalmente era giunto il momento di regolare i conti, di ricevere la giusta ricompensa per la "nobile azione partigiana" compiuta a beneficio della libertà e della democrazia e a rischio della propria vita. La cinghia fischiava in aria con un suono cadenzato, quasi dolce, in quella piazza silenziosa e assolata. Nessuno parlò, nessun applauso coprì gli striduli strilli del "vigile" in fuga, solo si poteva vedere sulle facce della gente, alla fine di quella scena, un sorriso, triste, di consolazione, di recuperata normalità, come se per i presenti almeno uno dei pezzi mancanti al concetto di giustizia fosse finalmente tornato al suo posto. Poi la giustizia, seppure con le inevitabili lacune, tornò davvero e con essa la pace. Nessuno, nemmeno Silvio, fu più costretto ad affrontare i fantasmi dell'incubo orribile così a lungo sognato.



2 commenti:

Valerio Maruffi ha detto...

Come sempre il tuo modo di scrivere ti trascina senza fatica fino alla fine.
Silvio per me era il nonno materno.
Un abilissimo falegname che ha costruito buona parte della casa dove abito tuttora. Scale, mobili, ringhiere. Tutto in legno
Purtroppo ero piccino quando se n'è andato.

Costantino ha detto...

Un racconto che mi ha coinvolto, anche perchè ambientato in uno dei luoghi più belli d'Italia.
Le vere deformità stanno in molte, spesso burocratiche, ingiustizie, nell'arroganza di chi è "normale", o almeno finge di esserlo.
Ed i "valori", quelli autentici sono senza tempo, possono essere di cinquant'anni fa ma è come se fosse oggi...