Giovanni Gerbi
Il Diavolo Rosso
4
Ora sulla strada c’è solo silenzio. E polvere. Si sta alzando una brezza, proveniente dal mare, che porta il profumo del salino fin sul valico, lo sospinge sulla cresta dei monti per farlo precipitare giù, fra i boschi dell’entroterra, rotolando come un sasso, come un blocco d’ardesia a spacco fino alla valle. All’ombra dei giovani pini Agostino e Mario stanno distesi in silenzio; aspettano il passaggio della corsa, immaginando il frastuono delle ammiraglie, dei direttori sportivi che incitano i corridori a voce altissima, perché costretti a mantenersi ad una certa distanza dai ciclisti a causa della troppa polvere che le loro automobili sollevano. Il cuore balza in petto al minimo rumore in lontananza: un volo di cavallette, uno schiocco di merlo, tutto fa sì che i due amici si risveglino di colpo dal pesante torpore, che li culla già da qualche minuto per la fatica ed il pranzo abbondante. Poco dopo le tre il silenzio è percorso da uno strano ronzio: il respiro pesante e sonoro dei due giovani, vinti dal caldo e dalla fatica. Respirano quasi all’unisono, distesi vicini; le gambe, eroiche protagoniste della durissima scalata, sono abbandonate in completo riposo, le scarpe slacciate, i visi arrossati dal sole. Una poiana sorvola la zona, che è il suo territorio di caccia. Lei sola è in grado di vedere i due corpi vicini, arresi al riposo e altri corpi, guizzanti e multicolori laggiù, dove la strada si perde oltre il costone del monte. Lei sola sente, acuta osservatrice, i respiri ritmati dei due e quegli altri, più affannati ma regolari, che si avvicinano e si confondono, vi si sovrappongono per un istante, prima di rotolare via, insieme alle ruote delle biciclette impolverate. La poiana sorvola con grandi cerchi concentrici il suo territorio di caccia; qualche auto, che passa sferragliando sul terreno leggermente sconnesso, non turba il silenzio del bosco e le prede, ignare, perseguono quiete lo scopo della sopravvivenza quotidiana. Nel sole che abbaglia, riflesso sul mare, la vita che passa somiglia a una musica: respiri ritmati, motori ritmati, rumore di sassi scalzati, accenni di voci trattenute dalla stretta caparbia dei denti, nelle mascelle tese, contratte per la fatica e la fierezza. Poi finalmente torna il silenzio, brulicante di vita furtiva. La poiana decide la preda e si lancia in picchiata, sicura, maestosa ed inesorabile; scompare nel folto degli alberi, oltre la costa del monte, per poi riemergere come da un mare verde, tremulo, risalendo in alto con la preda ben salda fra gli artigli. Lancia un grido acutissimo, che proclama il trionfo o forse annuncia a chi aspetta l’arrivo del pasto. Agostino riemerge anche lui dal suo sonno pesante e si siede di scatto, sfregando gli occhi impastati di polvere e sonno. Con la mano scuote l’amico, che mormora qualcosa fra le labbra screpolate. Sono seduti e svegli adesso; il cuore batte all’impazzata per il risveglio improvviso e innaturale e per un certo presentimento che nessuno dei due si decide ad ammettere. Improvviso, poco lontano, si sente un vociare cadenzato e un fruscio di strada sterrata e di sassi divelti. I due ragazzi balzano in piedi e scendono dal poggio come giovani lepri: dalla curva, vociando e incalzando, sopraggiunge un pastore col suo gregge di pecore, già private del vello. Ha un bastone di legno di nocciolo, sottile, e ogni tanto sospinge le pecore sfiorando loro i garretti con risoluta dolcezza. Agostino e Mario non riescono a muovere un solo passo e aspettano che il pastore passi loro davanti, per domandargli, non senza timore, notizie del Diavolo Rosso; ma il pastore non sa della corsa: ha salito la mulattiera del monte ed è sbucato sulla strada pochi metri più in là; non ne capisce di biciclette lui, né di diavoli di qualunque colore siano. Disorientati e straniti i due amici stanno per risalire sul poggio, per rinfrescarsi alla fonte, quando si sente arrivare da lontano un mezzo a motore. I due amici si guardano: un lampo di irriducibile speranza sciabola nei loro occhi, ormai spalancati. È una moto, ma questa volta poco importa la marca o il modello: i due si precipitano sulla strada: la moto procede avanzando veloce e non accenna a rallentare neppure in vista dei due giovani che agitano le braccia. Non si fermerà, lo capiscono. Allora Agostino domanda a gran voce:- Siete un battistrada? I corridori? A che punto è la corsa?- Il centauro, avvicinandosi, risponde e la sua voce si sente appena, confusa con quella del motore:- La corsa è passata già da un pezzo…i corridori sono andati…non c’è più nessuno…- e solleva una polvere densa, passando vicino ai ragazzi. – E il Gerbi? Il Diavolo Rosso? – domanda Agostino, con la voce strozzata dalla polvere e dalla delusione :- Si è ritirato trenta chilometri dopo la partenza…troppe cadute…ginocchia fasciate…- La scia di polvere della moto trascina con sé le ultime parole del centauro, mentre i due stanno fermi, interdetti, sul ciglio della strada nuovamente deserta. Su in alto, simile al grido acuto della poiana, si sente la voce incalzante del pastore, che sospinge le pecore verso la cima del monte. La brezza marina raduna piccole nuvole bianche sul ciglio dell’orizzonte; ogni tanto, come un uccello rapace, scende in picchiata lungo la costa dei monti e giocando insieme alla polvere cancella le tracce di un sogno impresse da ruote e pedali sulla terra battuta della strada.
Fine
3
Sono ormai quasi le due quando Agostino e Mario arrivano in cima alla lunga salita, ripida e tortuosa, che li ha portati fino al Passo del Bracco, l’antica Aurelia. Girano a destra, verso Carrodano, alla ricerca di un posto lungo la strada che consenta loro una buona visuale sul passaggio dei corridori. Poco distante dal punto in cui si sono immessi sull’Aurelia c’è una piccola fonte, subito sopra strada, all’ombra dei pini: la raggiungono raccogliendo le ultime forze. Abbandonano le biciclette ai piedi del poggio al di sopra del quale zampilla, come un miraggio nel deserto, un piccolo getto d’acqua freddissima: è piacevole lavare via la polvere e il sudore, sentendo la temperatura del corpo abbassarsi progressivamente. – Secondo i miei calcoli – dice Mario, una volta sedutisi all’ombra – i corridori dovrebbero passare da qui fra circa un’ora, un’ora e mezza al massimo – Agostino toglie il fazzoletto ormai fradicio che aveva usato come berretto e si distende sugli aghi di pino, appoggiandosi sui gomiti. I muscoli dei polpacci gli fanno male, i piedi anche. All’improvviso si sente in lontananza il rumore di un motore che si avvicina. Mario balza in piedi, fissando attentamente il punto più lontano che da quella posizione riesce a raggiungere con lo sguardo: la sagoma di una motocicletta si indovina nella densa cortina di una nuvola di polvere. – Belandi! È una Excelsior! – dice Mario con tono da intenditore. - Cosa ne sai tu di che moto è quella! – esclama Agostino con aria dubbiosa, mollemente disteso nella stessa posizione di prima. – Mio cugino, che è andato a lavorare a Torino, mi ha parlato di questa moto – spiega Mario prontamente e aggiunge con orgoglio – lui lavora nello stabilimento Della Ferrera, lui le moto le fa! – Agostino si alza a sua volta, un po’ riluttante ma incuriosito dall’entusiasmo dell’amico; la motocicletta si avvicina, rallenta, si ferma proprio davanti a loro. Uno dei due centauri scende, sollevando gli occhiali e spostandoli sulla fronte. Ha in mano una borraccia e si avvicina alla fontanella per fare rifornimento. – Salve, fate parte della carovana che accompagna il Giro? – chiede Mario senza indugio. Il centauro scopre i denti bianchissimi in un largo sorriso – Sì, facciamo da battistrada. Non solo noi. Dietro ci sono altre moto ed anche auto. Dietro… – e pronuncia quell’ultima parola con un sorriso malizioso, rivelando un certo orgoglio. – Bella moto! – esclama Agostino e fingendo una conoscenza che non possiede :- È una Excelsior?- aggiunge, mentre Mario lo fulmina con un’occhiata – No – risponde pacatamente il centauro, riempiendo la borraccia fino all’orlo, dopo aver versato un po’ d’acqua sugli occhi arrossati per il calore e la polvere – é una Della Ferrera, 300 cc, comando a doppio bilanciere – e intanto scende dal poggio e risale sulla motocicletta – Belandi! – dice Mario quasi in un sussurro – capace che l’ha fatta mio cugino! – I due motociclisti ripartono prima che Agostino abbia il tempo di chiedere notizie dei corridori. I due amici tornano a sedersi all’ombra: il sole arroventa la strada come d’agosto, le cortecce dei pini crepitano come se ardessero in un braciere. Seduti al fresco cominciano a sentire i morsi della fame; hanno consumato tutte le energie disponibili in quella salita eroica sotto il sole e adesso il pensiero del minestrone dell’Amelia e di un bicchiere di vino prende decisamente il posto del grande Gerbi nel loro immaginario. Il vino, raffreddato sotto lo zampillo gelido della fontanella, è delizioso e scorre con la dovuta generosità; il minestrone è un sogno, un trofeo, vale ben più delle 25.000 lire che l’organizzatore Armando Cougnet ha promesso in premio al vincitore del Giro. Alle tre i rintocchi del campanile di Carrodano sono sovrastati dal passaggio di alcune automobili; i due giovani vorrebbero attirare l’attenzione degli occupanti, per chiedere notizie circa l’andamento della corsa e il tempo che manca al passaggio dei corridori, ma la polvere sollevata dagli pneumatici sul fondo battuto del Bracco impedisce loro di vedere e di essere visti. Nel vortice bianco che si allontana solo una scritta è leggibile: Bianchi; l’ammiraglia del grande Gerbi è appena transitata sotto i loro occhi, allontanandosi come un miraggio e lasciando, a ricordo del già leggendario passaggio, solo l’impronta delle ruote sulla strada deserta.
Fine terza parte
2
Alle undici precise Mario ferma la bici sotto il pergolato, proprio davanti alla chiesa. Agostino lo raggiunge, con la sua pedalata inconfondibile; ha in testa un fazzoletto a righe, che ha annodato ai quattro angoli perché diventi un berretto: il sole picchia sulla polvere della strada e la fa brillare come fosse neve. In quel momento Don Bacigalupo esce dalla chiesa, la tonaca perfettamente abbottonata malgrado il caldo:- Buongiorno figlioli!- esordisce con la sua voce baritonale, imperiosa come quando commenta i Vangeli nell'omelia o canta l'Alleluia. I due ragazzi sorridono come bambini nel giorno della Prima Comunione:- Buon giorno padre!- Don Bacigalupo appoggia uno schiaffetto benevolo su quei visi che conosce molto bene,come fossero ancora i suoi chiericchetti di un tempo e chiede con aria paterna e vagamente indagatrice:- Come mai da queste parti?:- - I due ragazzi non nascondo l'entusiasmo:- Saliamo al Bracco in bici a vedere i corridori- rispondono, come se per tutta la mattina non avessero aspettato che quella domanda - se siamo fortunati potremo veder passare anche il Diavolo Rosso !-
-Come, come....andate a veder passare il diavolo?! :- Esclama il parroco, fingendo uno stupore che non prova: conosce bene il leggendario corridore e l'origine di quel soprannome così particolare; pare che Gerbi se lo sia giadagnato attraversando suo malgrado una processione, durante una fuga, nel bel mezzo di una corsa. Si dice sia stato proprio il sacerdote che guidava i fedeli in preghiera a definire così quella figura vestita di rosso, piombata all'improvviso sui presenti come una creatura infernale che avesse avuto l'ardire di disturbare col suo passaggio l'atmosfera mistica e compresa della processione. I due ragazzi ridono alle parole di Don Bacigalupo che, aggiunta qualche raccomandazione, si allontana sorridendo, non senza aver prima accarezzato il capo dei due giovani con un gesto che somiglia ad una benedizione. Agostino e Mario non avrebbero mai osato chiedere al parroco di benedire quella che ritengono in tutto e per tutto un'impresa eroica, per questo quel gesto così istintivo e affettuoso ha per loro il valore di un viatico. Risalgono sulle biciclette con il cuore leggero, il campanile batte il quarto, la strada, impervia e tutta curve, li aspetta; nello zaino che Agostino porta sulle spalle c'è la gavetta con dentro il minestrone, una fiaschetta di vino, pane, salame e le raccomadazioni di quelli rimasti a casa. Dopo un paio di chilometri, mentre affrontano i tornanti in vista della Rossola, lo specchio di mare aperto alla loro sinistra è come una distesa d'acciaio fuso. Il riverbero del sole accende le guance dei due amici che ormai non sono più due ragazzi in cerca di una leggenda, ma due corridori veri, due gregari, disposti per natura e per carattere a sputare il sangue sulla strada, a lasciare l'ultimo respiro nella polvere per poi risollevarsi e continuare a pedalare e salire, salire, fino all'arrivo. Quando giungono all'altezza di Bonassola è già passata un'ora, sessanta minuti di sofferenza sotto il sole di mezzogiorno. I pantaloni che Mario ha tagliato per ricavarne dei calzonicini corti sono passati dal nero originario ad un'indefinita sfumatura di grigio, per la polvere e per il sudore che li intride e li fa appiccicare alle cosce. Agostino sente la fatica scendergli in rivoli dai capelli lungo tutto il corpo e i muscoli delle braccia indolenzirsi, per la contrazione provocata dalla posizione con cui cerca di assecondare i tornanti in salita e per via dei venti chili di peso della bici. Il rapporto che hanno deciso di impostare prima di partire è quello giusto. Mentre arrancano sotto il sole, i due amici scambiano brevi occhiate d'intesa e di soddisfazione; la fatica, che aveva soppiantato l'entusiasmo iniziale, lascia a sua volta il posto ad una condizione psicofisica ideale: i due sembrano non avvertire più la stanchezza, pedalano con un ritmo costante, fluido, accompagnando le bici sul terreno accidentato, assecondando la sinuosità della salita. Il silenzio è appena disturbato dal canto delle cicale, nascoste nei cespugli di ginestra e di elicriso. Le cortecce dei pini scricchiolano al calore del sole, lasciando che un profumo intenso di resina si liberi nell'aria. Il respiro ritmato dei due accompagna le pedalate sicure; l'unico timore, che cercano di esorcizzare non pensandoci, è la possibilità di una foratura: hanno solo una camera d'aria di ricambio, che Mario porta incrociata sulle spalle, come fanno i veri corridori. Nessuno lungo la strada saluta il loro passaggio: solo una poiana, che sorvola la zona disegnando ampi cerchi con le ali spiegate, sembra intenzionata a seguire a debita distanza la loro scalata alle pendici del Bracco: la corsa silenziosa di due gregari in fuga, in cerca del proprio capitano.
-Come, come....andate a veder passare il diavolo?! :- Esclama il parroco, fingendo uno stupore che non prova: conosce bene il leggendario corridore e l'origine di quel soprannome così particolare; pare che Gerbi se lo sia giadagnato attraversando suo malgrado una processione, durante una fuga, nel bel mezzo di una corsa. Si dice sia stato proprio il sacerdote che guidava i fedeli in preghiera a definire così quella figura vestita di rosso, piombata all'improvviso sui presenti come una creatura infernale che avesse avuto l'ardire di disturbare col suo passaggio l'atmosfera mistica e compresa della processione. I due ragazzi ridono alle parole di Don Bacigalupo che, aggiunta qualche raccomandazione, si allontana sorridendo, non senza aver prima accarezzato il capo dei due giovani con un gesto che somiglia ad una benedizione. Agostino e Mario non avrebbero mai osato chiedere al parroco di benedire quella che ritengono in tutto e per tutto un'impresa eroica, per questo quel gesto così istintivo e affettuoso ha per loro il valore di un viatico. Risalgono sulle biciclette con il cuore leggero, il campanile batte il quarto, la strada, impervia e tutta curve, li aspetta; nello zaino che Agostino porta sulle spalle c'è la gavetta con dentro il minestrone, una fiaschetta di vino, pane, salame e le raccomadazioni di quelli rimasti a casa. Dopo un paio di chilometri, mentre affrontano i tornanti in vista della Rossola, lo specchio di mare aperto alla loro sinistra è come una distesa d'acciaio fuso. Il riverbero del sole accende le guance dei due amici che ormai non sono più due ragazzi in cerca di una leggenda, ma due corridori veri, due gregari, disposti per natura e per carattere a sputare il sangue sulla strada, a lasciare l'ultimo respiro nella polvere per poi risollevarsi e continuare a pedalare e salire, salire, fino all'arrivo. Quando giungono all'altezza di Bonassola è già passata un'ora, sessanta minuti di sofferenza sotto il sole di mezzogiorno. I pantaloni che Mario ha tagliato per ricavarne dei calzonicini corti sono passati dal nero originario ad un'indefinita sfumatura di grigio, per la polvere e per il sudore che li intride e li fa appiccicare alle cosce. Agostino sente la fatica scendergli in rivoli dai capelli lungo tutto il corpo e i muscoli delle braccia indolenzirsi, per la contrazione provocata dalla posizione con cui cerca di assecondare i tornanti in salita e per via dei venti chili di peso della bici. Il rapporto che hanno deciso di impostare prima di partire è quello giusto. Mentre arrancano sotto il sole, i due amici scambiano brevi occhiate d'intesa e di soddisfazione; la fatica, che aveva soppiantato l'entusiasmo iniziale, lascia a sua volta il posto ad una condizione psicofisica ideale: i due sembrano non avvertire più la stanchezza, pedalano con un ritmo costante, fluido, accompagnando le bici sul terreno accidentato, assecondando la sinuosità della salita. Il silenzio è appena disturbato dal canto delle cicale, nascoste nei cespugli di ginestra e di elicriso. Le cortecce dei pini scricchiolano al calore del sole, lasciando che un profumo intenso di resina si liberi nell'aria. Il respiro ritmato dei due accompagna le pedalate sicure; l'unico timore, che cercano di esorcizzare non pensandoci, è la possibilità di una foratura: hanno solo una camera d'aria di ricambio, che Mario porta incrociata sulle spalle, come fanno i veri corridori. Nessuno lungo la strada saluta il loro passaggio: solo una poiana, che sorvola la zona disegnando ampi cerchi con le ali spiegate, sembra intenzionata a seguire a debita distanza la loro scalata alle pendici del Bracco: la corsa silenziosa di due gregari in fuga, in cerca del proprio capitano.
Fine seconda parte
3 commenti:
Una grande emozione,racchiusa nel cuore e portata sempre con sè.
Una grande gioia, sentirsi protagonisti,per qualche attimo, assieme ai grandi campioni ed ai più umili gragari.
Da piccolo ... A veder passare Gimondi ... L'acqua fresca e invitante dalla montagna ... I primi caldi ... Su e giu' dalla strada alla sorgente ... Litri su litri ... Indigestione ... Una settimana a letto ... Gira gira la ruota in rosa ...
Non hanno visto i corridori ... Comunque sotto la sabbia ... le tracce di un sogno ... continuano a correre ...
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