Una lettera



 

Egregio Presidente,

sono un'impiegata dell'impresa di pulizie che Lei ritiene essere sovradimensionata per le esigenze della sua società e, per questo motivo, ha deciso di mettere da parte.
So bene come andranno a finire le cose. Il sindacato ribatterà che si devono garantire i livelli occupazionali, Lei insisterà sulla necessità di ridurre drasticamente il servizio e si arriverà al compromesso che si lavorerà meno, per lavorare tutte, oppure si salveranno soltanto la metà delle attuali dipendenti, ma con l'orario immutato.
Qualcuna sarà prepensionata (non è il mio caso), qualcun'altra verrà collocata in cassa integrazione, magari a zero ore, altre ancora troveranno lavoro in imprese collegate. Chissà dove, chissà per quanto.
Sicuramente molte di noi dovranno rivedere il bilancio familiare, perché non si potranno più permettere il lusso di contare su 800 euri al mese.
Ecco, io potrei essere una di queste. Non mi spaventa, sono cresciuta dovendo quotidianamente affrontare mille difficoltà.
Sa Presidente, alle privazioni ci si abitua. Sin da ragazzina ho dovuto tirare la cinghia anche se, a dire il vero, una cinghia nemmeno ce l'avevo. Abitavo con mia madre e mia sorella più piccola in un quartiere fiorente e gonfio di speranze e promesse soltanto per due mesi ogni cinque anni, durante le campagne elettorali.
Trenta metri quadri in tre. Mio padre lo ricordo appena, morì che avevo pochi anni.
Si viveva della sua pensione di operaio, a cui si aggiungevano pochi spiccioli per l'accompagnamento di mia madre, non vedente. Spesso stavamo al buio, per risparmiare e perché mia madre della luce non sapeva che farsene. Io e mia sorella studiavamo al lume di candela.
Siamo sempre andate d'accordo. La sera, mentre mia madre ascoltava la radio per addormentarsi, giocavamo al gioco dell'oca o a battaglia navale.
Sono cresciuta senza PlayStation eppure ero felice. La TV arrivò in casa nostra quando un lontano zio si comprò un nuovo televisore a colori e ci regalò il suo vecchio 14 pollici in bianco e nero, con i canali che saltavano spesso e l'audio velato.
Per noi l'arrivo della TV fu un evento emozionante, di cui ingenuamente ci vantammo anche a scuola. Ma fu anche l'inizio di un periodo molto doloroso.
Allora avevo diciassette anni, mia sorella due in meno.
Lo zio di cui ho parlato venne a portarci la nostra piccola TV una domenica mattina. Non dovette suonare il campanello perché proprio in quel momento mia sorella teneva la porta di casa aperta per poggiare sul pianerottolo il sacchetto delle immondizie. Lui salutò ed entrò.
Io in quel momento stavo facendo il bagno nella vasca piena di acqua calda e sali profumati. Me lo potevo permettere soltanto la domenica e volevo gustarmelo fino in fondo. Lui non era mai stato a casa nostra. Passò davanti al bagno proprio mentre io uscivo dalla vasca. La porta era aperta, come sempre. Quando si vive con una non vedente non si fa tanto caso a certi pudori. Io e mia sorella talvolta giravamo seminude per casa, senza alcuna malizia.
Mio zio mi fissò per alcuni secondi, prima che riuscissi a prendere l'accappatoio e chiudere la porta.
Qualche giorno dopo squillò il telefono. Rispose mia sorella. Era lui.
Non ci girò molto intorno. Mi disse che molte mie coetanee potevano fare una vita più agiata della mia perché ogni tanto facevano compagnia a persone anziane e bisognose di intimità.
Si lavorava poco e si guadagnava bene. Lui controllava e faceva in modo che non succedesse niente a nessuno e che gli incontri si svolgessero nella massima riservatezza e pulizia.
Lo mandai a cagare. Non ero neanche sicura fosse davvero mio zio.
Poche settimane dopo arrivò Natale. Un triste, tristissimo Natale. Anche mia madre ci aveva lasciato, i primi giorni di dicembre. L'unico reddito per me e mia sorella era ormai la pensione di mio padre. O meglio, quello che ne restava. Le prospettive dell'immediato futuro erano poco felici.
Il giorno dell'Epifania "lo zio" chiamò ancora e, dopo le condoglianze, mi chiese se ero ancora arrabbiata con lui. Questa volta non gli sbattei il telefono in faccia.
Gli incontri si svolgevano in un monolocale della costa, appartato, decoroso, abbastanza pulito ma con un forte odore di umido, arredato con gusto dozzinale e, date le circostanze, equivoco. I primi tempi lavoravo un paio d'ore una volta alla settimana, ben presto i giorni diventarono una decina al mese.
Molti pensionati, qualche agente di commercio, turnisti, dipendenti in trasferta e militari. Si agitavano sul mio corpo acerbo per pochi minuti, dopo avermi toccato dappertutto rudemente, senza il minimo sentimento. Ricordo ancora l'alito puzzolente di tanti corpi sfatti, gli occhi impregnati di vino, le loro unghie sporche su di me. Ho visto tante cicatrici, tanti nei. Ho respirato tanto sudore e fumo di sigaretta. Alcuni clienti erano evidentemente abituati a certi incontri, altri invece recitavano un ruolo che non gli si addiceva, con frasi forzatamente volgari per darsi un tono. Magari a casa li stava spettando una figlia della mia età.
La mia discesa all'inferno durò sei mesi. Un pomeriggio si presentarono in due, pieni di tatuaggi e di proposte insostenibili. Io, con la scusa di andare in bagno a lavarmi, scappai dalla finestra e corsi fino a sentire il cuore scoppiarmi in gola. Tornai a casa molto tardi, in autostop.
Dopo due giorni lui mi telefonò. Mi riempì di insulti e, con mia grande sorpresa, mi disse che aveva già in mente di scaricarmi perché ero ormai maggiorenne, ma che un giorno l'avrei cercato io e mi avrebbe ripreso soltanto alle sue condizioni.
Stavolta fu lui a sbattermi il telefono in faccia. Non l'ho più sentito in vita mia.
Qualche mese più tardi risposi ad un'inserzione sul giornale. Si trattava di un posto part-time di segretaria presso un'associazione di artigiani. Compenso da fame, tutto in nero, nessun contributo previdenziale, orari pesanti. Un ricatto per disperati, ma io ero disperata e accettai.
La sede sociale era uno stanzino al piano terra di uno stabile fatiscente appena fuori città.
Mi comprai un paio di pantaloni e un maglioncino dai cinesi sotto casa per assumere un aspetto dignitoso. Con un vasetto di fiori e due quadretti provai anche a rendere più grazioso ed accogliente l'ufficio così spoglio, striminzito e sperduto ma per me così importante.
Il mio lavoro consisteva nel rispondere al telefono, spedire la corrispondenza e verbalizzare durante le riunioni. Per arrotondare la paga non affrancavo le lettere destinate ai soci e le consegnavo a mano. I soldi per i francobolli, tolte le spese per i biglietti del pullman, restavano a me. Fu proprio in occasione di una di queste consegne che conobbi l'anno scorso il proprietario dell'impresa di pulizie dove ho lavorato fino a oggi. Cercava nuovo personale e mi propose di fare un periodo di prova di tre mesi. Il resto della storia lo può intuire, Presidente.
Adesso Lei si starà chiedendo come mai Le ho raccontato tutte queste cose. Non si preoccupi, non intendo elemosinare una raccomandazione o chiedere la carità di una proroga dell'impiego. Il mio destino è affidato al gioco delle parti, ho un destino precario. Ricominciare non mi spaventa più. Ma ho una sorella più piccola ed ho promesso a mia madre, quando era in punto di morte, di vigilare su di lei. Questo pensiero mi ha sempre dato la forza di sopportare tutte le umiliazioni che ho dovuto subire e di maturare la convinzione di risparmiarle almeno a lei.
Non ho altre pretese che proteggere la sua dignità.
Ma lo sa che la settimana scorsa stavo pulendo la barca del titolare dell'impresa di pulizia ormeggiata al porticciolo e all'improvviso dall'imbarcazione accanto è uscito Lei con la sigaretta in bocca e un fascio di quotidiani sotto il braccio? Aveva un bel paio di occhiali da sole, pantaloncini e ciabatte. Non mi ha vista e per non metterLa in imbarazzo anche io ho fatto finta di niente.
Vede Presidente, da quel giorno mi sono chiesta spesso dove avevo già visto la cicatrice che Lei ha sotto lo stomaco. Stanotte mi sono ricordata.
Io e la sua cicatrice ci siamo conosciuti nel monolocale sulla costa. Lei non può ricordarsi di me, io invece fatico a non pensarci. Ma con un po' di buona volontà potrei dimenticare. Perché esistono anche cicatrici che possono scegliere di non sanguinare.
Con deferenza.




Testo:Mansardo
"La cacciata dal Giardino dell'Eden" 
particolare di Eva

8 commenti:

red ha detto...

Ciao Mansardo, questo testo, molto duro e crudo, mi ha fatto pensare alla primavera... alla moltitudine di fiori che sbocciano ogni giorno nel giardino della Terra, a quanti vengono strappati, calpestati, sfregiati da quella parte di umanità che non conosce pietà, che non ha limiti né freni... anche questo, purtroppo, accade ai fiori...

Lara ha detto...

Solo ad un certo punto sono riuscita a pensare ai fiori. Per il resto vedevo solo una penombra straziante.
E una indignazione che in questi tempi, sembra non abbandonarmi molto.
Ciao cara Red, buona domenica!
Lara

BocchiglieroOltre ha detto...

Le cicactrici non sanguinano se non vengono riaperte, ma Loro non smetterammo mai di esserci, di ricordarci, in ogni istante, che ci hanno fatto soffrire, ma che ci hanno temprato e fatto crescere per affrontare ogni sorta di avventura nel bene e nel male, come la scienza, la ricerca che servono alla crescita dell'umanità ma possono essere usate contro l'umanità. La protagonistà è pronta a superare ogni tempesta,e lo si capisce con chiarezza impressionante.Forse non doveva spingersi Oltre.......

Achab ha detto...

Un testo molto reale e vero,a tratti mi sono fermato nella lettura per il motivo che avevo gli occhi lucidi dalle lacrime,ma anche molta rabbia dentro,per il percorso di vita di questa creatura,ciao Mansardo.
Ciao Red,buona domenica.
Un bacio.

Salomé Guadalupe Ingelmo ha detto...

Porca miseria... Appunto è quella la parola giusta: miseria, la peggiore delle miserie possibili, la miseria del anima. Abbraccio caldo arrivato da questo brivido condiviso.

Anonimo ha detto...

"...anche questo, purtroppo, accade ai fiori..."
Questa amara e realistica considerazione credo che sia la sintesi perfetta di ciò che ho provato a descrivere nel racconto e di ciò che leggo nei commenti.
Ciao Achab, la storia è totalmente inventata, ma ovviamente prende spunto da brandelli di realtà che tutti possono cogliere in qualsiasi telegiornale o quotidiano.
Una storia dura, fastidiosa, ma non disperata. Perchè è vero che conosce risvolti tristi e drammatici, ma è anche vero che ogni volta nella protagonista c'è una ferma volontà di rinascita.
E io penso che la capacità di risollevarsi, di ricominciare, sia essenziale, perchè le cadute - ahimè - sono inevitabili.
Un saluto a tutti.
Ms

Achab ha detto...

Condivido il tuo commento Mansardo,la risalita e la rinascita è vero sono importanti,ancora complimenti.
Ciao Red.

Adele ha detto...

Drammaticamente vero ...straziante.Eppure aperto alla speranza. Dobbiamo tutti credere alla volontà di rinascita , ora più che mai. Buona settimana Red. Adele