Piccola Biblioteca Sentimentale



L'agave

Edo da un po' di tempo ripeteva che il passare degli anni stava modificando il suo modo di vivere le emozioni. Poteva capitargli di commuoversi davanti ad un bel tramonto e poi di restare impassibile nel ricevere una brutta notizia. Stentava a riconoscersi.
Non aveva tutti i torti. Anche io stavo subendo la stessa trasformazione. Ricordo che una sera, tornando da una cena, notai per la prima volta nella sua testa un capello bianco e, chissà perché, mi vennero in mente gli anni in cui ci scambiavamo le figurine dei calciatori. Inconsapevoli ed incolpevoli, non avevamo ancora idea del futuro e ci capitava sempre più spesso di parlare del passato.
Edo trascorreva le sue giornate a rimpiangere Eleonora. Lui, che aveva sempre preferito il rimorso al rimpianto, adesso doveva rimpiangere qualcuno, Eleonora. Che per diventare cigno aveva dovuto strangolare il brutto anatroccolo, Edo.
Di lei aveva pensato tutto quello che si può pensare. Eppure la rimpiangeva. Dovevo inventarmi qualcosa, glielo dovevo da amico. Non potevo continuare a vederlo così.
"Perché non mi accompagni a Monte Savio?"
Edo mi guardò tutt'altro che convinto. "A Monte Savio? E che ci fai tu a Monte Savio? C'è solo un'abbazia in mezzo al bosco. Guarda che è lontano, la strada per arrivarci è schifosa..."
"...ma il posto è splendido!" lo interruppi io con fare conciliante "E poi volevo andare proprio a trascorrere un fine settimana all'abbazia. Pace, tranquillità, natura."
Stava per replicare, non gliene diedi il tempo. "Un fine settimana, ho detto. Non di più. Rifiatare non può farci che bene. Io sono stressato dall'ufficio, tu ti stai accartocciando nei ricordi. Prendiamoci due giorni soltanto per noi. E che sarà mai!"
Barcollò ma non capitolò. "Matto. Tu sei matto..." sussurrò scuotendo la testa "E poi non ne ho voglia. Non sto male. Sono solo un po' stanco. Posso riposarmi anche a casa."
"E come no! A cercare nuove lacrime da piangere." Unii le mani e restai zitto alcuni istanti guardandomi attorno. Il salone di casa sua era pieno zeppo di quegli oggetti e quelle foto che sembrano fatti apposta per far venire il malumore a chi non ne ha bisogno.
La sua mancata reazione, tuttavia, mi fece sentire un po' in colpa. Forse ero stato troppo crudo. Corressi il tiro. "Ma come fai a non accorgerti che stiamo perdendo il nostro epicentro, viviamo i desideri di altri, seguiamo spesso comete sbagliate? Sinceramente, adesso dimmi: la vita che conduci è la tua o quella che ti hanno costruito attorno gli spot pubblicitari? Hai ben chiaro perché ti comporti in un modo piuttosto che in un altro? Non ti chiedo se sei felice, ma riesci qualche volta a prendere le distanze dall'infelicità?
Io credo di aver bisogno di far pace con le facoltà di pensiero e di parola. Ho bisogno di perdere l'orologio, ho bisogno di guardare un film in bianco e nero perché sento che questi colori mi stanno ingannando. Se gli spacciatori di realtà oggi distribuiscono solo reality, voglio dimenticarmi per qualche giorno la realtà. Ho bisogno di alzare gli occhi, Edo, e vedere solidi muri di pietra, alberi secolari, qualcosa che abbia sconfitto le mode. Ho bisogno di ritrovare il piacere di bere un semplicissimo bicchiere d'acqua, non queste aranciate. E voglio sentire la musica che sa ancora di legno, non i suoni campionati di un computer."
Restò immobile. Forse avevo colpito nel segno. C'è un argomento che gli è sempre stato particolarmente a cuore: la musica. Non lo avevo richiamato per caso. Si alzò dal divano e, continuando a lanciarmi brevi occhiate di falsa ostilità, si diresse verso il pianoforte. Lo aprì, si adagiò sullo sgabello e chiuse gli occhi. Le dita scivolarono sui tasti lasciando cadere sui nostri pensieri alcune note. Una melodia conosciuta, forse Bach, sfiorata, accennata e poi ritrattata, sfigurata. Era il suo modo di entrare in contatto con la musica. Si accese una sigaretta, la poggiò sulla conchiglia che usava come posacenere. Edo non fumava. Sapevo che la sigaretta si sarebbe lentamente trasformata in una colonnina di cenere, indisturbata, come una bacchetta d'incenso.
Le dita, nel frattempo, erano passate con proditoria leggerezza da Bach a Thelonious Monk.
Il piccolo busto di Giuseppe Verdi, al centro del pianoforte verticale, osservava severo gli occhi chiusi di Edo, infastidito forse appena dal fumo dell'inutile sigaretta.
Improvvisamente, le note di "Crepuscule with Nellie" si diradarono talmente da evaporare. Edo, riaperti gli occhi, chiuse la tastiera e restò con la testa china per un paio di secondi. Poi rientrò in sé. Si voltò e disse: "Sei proprio un rompiballe. Chissà se là c'è un pianoforte...". Era il suo modo di dirmi che sarebbe venuto.
Partimmo due giorni dopo, all'alba, per arrivare a Monte Savio prima dell'implacabile calura di giugno e, soprattutto, perché ci piaceva bucare l'aurora, passare inosservati nel mondo che, a quell'ora, sembra migliore.
Il viaggio scivolò via tra qualche caffè e molto Pat Metheny. Io guidavo, Edo s'incantava spesso guardando il paesaggio circostante e talvolta sonnecchiava. Ogni tanto mi godevo anch'io quel meraviglioso tramonto in sequenza capovolta. Ad un certo punto, non potei fare a meno di sfiorare con lo sguardo la chitarra che Edo si era portato dietro. Sapeva che non c'era un pianoforte a Monte Savio.
Giungemmo ai piedi della montagna dove sorge l'abbazia quando ormai il mattino scaldava il viso. Facemmo una sosta per respirare un po' d'aria pura e sgranchirci le gambe. Bevemmo da una sorgente che sgorgava dalla roccia poco distante dal guard-rail. Mentre mi rinfrescavo il viso notai l'inconfondibile fusto di un'agave che si ergeva sul resto della vegetazione proprio all'inizio della salita. "Vedi quella pianta molto alta?" dissi a Edo asciugandomi la faccia con un fazzoletto. Lui si voltò ed ebbe un attimo di esitazione. "Cos'è?" mi chiese.
"Un'agave. Quando è così alta vuole dire che è fiorita, cioè è morta. Tra non molto cadrà per spargere tutt'intorno i semi del suo fiore e continuare il ciclo della vita. Dai semi nasceranno altre piante di agave che, al loro culmine, faranno la stessa cosa."
Non sembrò particolarmente colpito dal discorso. Risalimmo in macchina e ci avviammo per l'ultima mezzora di strada bianca.
L'abbazia di Monte Savio ci apparve all'improvviso dopo l'ultimo tornante, severa nella sua semplicità. Solido ed imperturbabile, quel gigante di granito chiaro metteva un po' in soggezione. Ma fu una brevissima impressione, forse soltanto l'effetto del debito d'ossigeno dovuto all'altitudine.
Ci accolse l'abate priore, con il quale sbrigammo le formalità essenziali prima di essere accompagnati nelle nostre camere. Io alloggiavo a poca distanza dall'antica casa canonica, Edo dalla parte opposta dello stesso corridoio. Erano due stanze ricavate da antiche celle ormai in disuso.
Il giorno del nostro arrivo ci rivedemmo soltanto a pranzo, nella piccola foresteria che si affacciava sul chiostro. Seduti allo stesso tavolo, uno di fronte all'altro, per qualche minuto ascoltammo soltanto lo scricchiolio delle panche di legno sulle quali eravamo adagiati.
I pasti vengono consumati dai monaci in silenzio. Gli ospiti, pur non essendo tenuti al rigido rispetto del silenzio più assoluto, parlano il meno possibile. Poche e sommesse parole.
"Che te ne pare?" sussurrai. Edo mi guardò, portò alla bocca un pezzo di pane e, senza mai smettere di essere serio, rispose: "Tutto questo silenzio fa venire voglia di ascoltare". Il suo sguardo si arrampicò sulle pareti della vecchia foresteria, ne percorse un tratto poi si bloccò oltre la finestra, in un punto imprecisato del chiostro. "Qui dentro anche i muri hanno qualcosa da dire. Sta a noi saperli ascoltare".
"E' per questo che ogni tanto ho bisogno di venire qui" mormorai accingendomi a mandar giù il primo ed ultimo sorso di un vino rosso troppo robusto per uno stomaco di pianura.
Il pomeriggio, all'interno dell'abbazia, è dedicato allo studio. Al fresco della mia camera, spartana ma confortevole, io passavo il tempo a leggere e prendere appunti per il mio nuovo libro, la biografia di un regista cinematografico.
Quando mancava più di un'ora alla cena, i muri di granito che mi circondavano lasciarono filtrare il ronzio ovattato di quello che doveva essere un canto gregoriano.
Erano i vespri. Aprii la porta, mi affacciai sul corridoio e notai l'ombra di Edo, seduto sul muretto, con la schiena appoggiata ad uno degli archi che incorniciano il chiostro. Imbracciava la chitarra ed accompagnava il canto dei monaci con discrezione, quasi pudore.
Non aveva notato la mia presenza. Meglio così. Inseguiva i suoi pensieri, preferii lasciarlo in compagnia della sola luce del tramonto.
Tornai nella mia stanza. Mi coricai sul letto con le mani dietro la testa e le gambe incrociate. Il giorno dopo saremmo ripartiti per Cagliari. Decisi di godermi le ultime ore della rarefatta solitudine dell'abbazia, dove per esistere non è necessario sembrare, dove il silenzio non significa indifferenza e la notte ti abbraccia senza chiederti niente in cambio.
Ritornai su queste riflessioni durante tutto il viaggio di ritorno, la mattina seguente.
Ai piedi della montagna, l'agave non c'era più. Aveva compiuto il suo estremo sacrificio per la conservazione della specie. Strano destino. Proprio nel momento di maggior bellezza deve morire per legge di natura.
Ascoltai molto Keith Jarrett, al ritorno. Ero molto più pensieroso che all'andata. Riavvolsi più volte il nastro dei giorni trascorsi nell'abbazia e, guardando il sedile dove all'andata c'era la chitarra di Edo, pensai che la vita è proprio imprevedibile.
A volte per riconoscere la nostra strada abbiamo bisogno di un aiuto, di una mano che ci spinga verso un apparente baratro oppure sposti di qualche metro il fascio di luce con il quale illuminiamo il nostro cammino. Abbiamo bisogno di ricominciare proprio quando ci sembra di essere arrivati, di lasciare tutto e ripartire da zero. Accettando il prezzo da pagare, la fatica da ingoiare.
L'aria fresca di quel mattino la ricordo ancora. Tornerò ancora a Monte Savio. E ti porterò il pianoforte che mi hai chiesto, padre Edoardo.
Mansardo


6 commenti:

achab ha detto...

Molto bello questo racconto,il finale è entra dentro in modo notevole,ciao.

Sile ha detto...

Sai una cosa ho visto in Sardegna un agave in fiore, ai suoi piedi aveva mille piccole piantine di agave...forse l'anno prima vi era un' altra agave in fiore vicino...e il prossimo anno sono sicura ci sara' un'altra agave il fiore e nuove piantine e altre appena cresciute...è così la vita. Un abbraccio Red e grazie. Sile

red ha detto...

Ciao Sile ed Achab, vi rispondo nello stesso commento perchè mi sembra abbiate gradito entrambi l'intensità di questo racconto. Questa etichetta è una porta, una piccola porticina da cui entra uno scrittore..un pittore di parole ed immagini. Penso che da ora in poi possiate indirizzare direttamente a lui i vostri commenti sui suoi racconti, poesie, immagini..credo che gli farà molto piacere leggerli e magari rispondervi. Io posso solo limitarmi a dire che non è stato affatto complicato aprire questa porticina sulla sua biblioteca...e che spero voglia intrufolarsi spesso di qua... lasciando tracce come queste.
Un abbraccio ad entrambi e un bacio speciale a Sile, Achab è un gentiluomo, non me ne vorrà. Red

Unknown ha detto...

Poesia pura, dall'inizio alla fine. Mi piacciono molto le descrizioni che usano tutti e 5 i sensi. Perché sono stimolanti, ti fanno "entrare dentro" al racconto. Se fosse un film, sarebbe in 3d! 'Gli occhi che si arrampicano' è un piccolo gioiello. Il finale...beh, il finale è un sussulto. Di gioiosa pace.

Anonimo ha detto...

cara Red, un saluto... sono stato via qualche giorno..
e tornerò a leggere il tutto, sono sicuro che ne vale la pena.
un abbraccio

Anonimo ha detto...

Grazie a tutti per le belle parole. A presto...
Ms