" Che bell'inganno sei, anima mia..."

Ci torno, ogni volta che raggiungo la Momentanea Destinazione e tutto mi appare chiaro e semplice e soprattutto sempre stato lì. Dalla piazzetta sotto l'arancio altissimo si vedeva davvero tutto il mondo. Non il rinchiuso infinito di una terra da cui si percepisse l'odore del mare, ma il mondo intero e come era stato pensato. Intorno, sui crinali di montagne non ancora ritornate scogli e travestite bellamente da colline, filari d'uva bianca ad arrugginirsi al sole e fra le larghe foglie grappoli di case asciutte e ariose, che se ne stanno ancora lì fingendo di non essere mature, dopo l'ultima vendemmia. Capivo già che in quel serrarsi, in piccoli gruppetti separati e non nel grande cerchio di un'identità finita, stava il tormento dell'appartenenza che avrei patito anch'io. Ci torno ora, al passo lento e cadenzato di una processione.

Paesetto di riviera

La sera amorosa
ha raccolto le logge
per farle salpare
le case tranquille
sognanti la rosa
vaghezza dei poggi
discendono al mare
in isole, in ville
accanto alle chiese.

Alfonso Gatto


 

La carta igienica e la decadenza

 Thomas Couture
I Romani al tempo della decadenza

Siamo, la mia familgia ed io, contribuenti ad una società usa e getta; me ne accorgo soprattutto quando sono finiti i tovaglioli di carta e ogni volta mi dico che sarebbe meglio riabituarsi al tovagliolo di stoffa, contrassegnato dal portatovagliolo, meno igienico se vogliamo, ma molto più ecologico perchè riutilizzabile. Tuttavia oggi la mancanza di tovaglioli di carta e di carta da cucina sostitutiva, mi ha fornito la possibilità di mettere in tavola, insieme al pranzo, anche una bella riflessione. Sono andata a prendere alcune strisce di carta igienica da un pacco di scorta in dispensa( precisazione importante) e le ho messe ripiegate con cura accanto ai piatti, come tovagliolini. Mia figlia, abituata alle mie soluzioni "estreme", sulle quali lascio decisamente fantasticare quanti leggeranno questo post, non ha detto niente, anche se non ha nascosto una certa aria di perplessità. Da questa ha preso il via una bella chiacchierata sull'apparenza e l'essenza delle cose. È stato come pranzare sulle rive di un fiume quieto ma al massimo della sua portata: considerazioni, intuizioni, rivelazioni di inaspettata ovvietà si sono susseguite per tutto il pranzo. Per quale motivo perdiamo di vista l'essenza di una cosa, di un concetto, e in quali circostanze ce ne rendiamo conto o riusciamo a recuperarla? Una parola può essere ancora considerata indicatore di un bene, di un concetto astratto che soddisfi le nostre necessità oppure le parole stanno attraversando un momento di profonda decadenza, data non dalla perdita progressiva della loro forza, del loro potere creativo( come dice il vocabolario), ma anzi dall'eccesso di utilizzo, dall'inflazione, dal sovraffollamento? La parola carta, ad esempio, credo sia una di quelle che ricorrono di più nella quotidianità di un italiano medio, eppure se finiscono i tovagliolini o i fazzolettini igienici, la nostra coscienza ne registra la mancanza e corre ai ripari con il subitaneo acquisto degli stessi. Poco importa che in casa ci sia altra carta utilizzabile: non ci viene in mente di usarla perchè non corrisponde all'idea che abbiamo della carta da usare in quel momento. È come se le parole, che sono l'dea di un oggetto o di un concetto, fossero state sostituite dall'idea di parola, assegnando ad ognuna caratteristiche ben precise e parametri di riferimento per identificarne la funzione. Questo succede, penso, con una moltitudine di termini, di vocaboli e di conseguenza di concetti o beni che con essi vengono identificati, codificati nel linguaggio comune. Prendiamo ad esempio la parola "decadenza". L'impero Romano decade ogni anno per gli studenti di "prima media" e insegna, attraverso lo studio della Storia, che la decadenza è un processo di impoverimento, di perdita che si rivela negativo non perchè esprime la fine di una potenza militare, economica e culturale, ma  perché indica l'incapacità di questa di gestire il potere in modo forte, creativo, produttivo. Che idea curiosa indicare con questa parola la meritata perdita di una carica pubblica. Sembra di trovarsi di fronte anche qui ad un processo degenerativo e non ad un dato di fatto, ad una comprovata e certa defenestrazione per incapacità e mancati meriti a tale carica. Si potrebbe addirittura pensare che anche la perdita di una carica pubblica, e dei relativi privilegi, sia qualcosa che deve accadere con una certa lentezza, seguendo un iter, una sorta di periodo improduttivamente conducente verso la fine. Anche qui, in un certo senso, l'idea di parola si sovrappone alla parola come idea. Se volessi guardare le cose con ottimismo direi con gioia che questa è davvero creatività, così evocativa di quella finanziaria...ma non mi sento molto ottimista per questo, anche se devo constatare che in questo ambito la creatività italiana non decade mai: in questi giorni possiamo seguire le alterne vicende di un decadente che, non ancora decaduto dal proprio potere, si oppone alla decadenza da una carica che ricopre con orgolgio tutto italiano da tempo. Il riferimento alla carta igienica ha sicuramente qualcosa a che vedere con questo.

Totòsofia



...tazza larga di caffé macchiato, fetta di torta al cioccolato, finestra spalancata su una magnifica mattina di settembre: serena, nuvolosa, quieta, ventosa, dorata e salmastra come solo a settembre può esserlo questa valle rinunciataria al traguardo del mare. Assaporo ogni percezione di questo istante prezioso e solo mio ed ecco che improvvisamente mi sento parte di uno spot pubblicitario. Pochi attimi ancora e una constatazione mi si srotola davanti come un tappeto volante. Ed io ci salgo su, naturalmente! Da quando mia figlia ha cominciato ad affacciarsi al mondo intorno, in cerca di nuovi modelli da mettere in discussione, la visione critica del piccolo schermo in famiglia si è fatta via via più attenta e serrata. Tuttavia non ci è voluto molto tempo per capire che, a diffrenza di "prima"( limite temporale di cui non tento nemmeno una descrizione più precisa) la pubblicità di un prodotto non è più volta a convincerci a spendere denaro, ma a sottrarci sistematicamente e quotidianamente quello che "prima" era il presupposto al nostro bisogno di acquistare un prodotto: un desiderio o necessità da soddisfare. Come sono cambiati i messaggi pubblicitari! Gli spot di un tempo, che decantavano le proprietà uniche, inimitabili di un prodotto, sono stati soppiantati da qualcosa che non saprei definire in altrettante parole. Potrei descriverlo come...la rappresentazione della nostra infelicità e conseguente eliminazione della stessa al subentrare di quel dato prodotto. Però la prima parte di questa definizione è quella che pesa di più in uno spot, quella cui viene dedicato il massimo impegno e la maggior parte dello spazio commerciale. Ne ho avuto conferma quando ho cominciato a rispondere alle domande " da grande" della mia ormai adolescente figlia. Domande esistenziali, importanti, bisognose di risposte nette che abbiano in tutto e per tutto l'apparenza di certezze assolute, perchè gli adolescenti hanno bisogno di certezze per sentirsi sicuri e per poterle fare a pezzi. Lo so bene, sono stata adolescente anch'io. Così mi sono ritrovata a rispondere a queste domande bellissime, immense e abisssali, con parole altrettanto belle ma...nelle quali avvertivo una sorta di "già sentito e pure troppo". Ho cercato di capire dove e ho realizzato che si trattava della pubblicità. Provare a dire ad una figlia ( in due parole soltanto, perchè i figli sono un uditorio esigente e facilmente incline alla noia) che la sua più grande libertà sta nell'immaginare il suo futuro, porta quasi inevitabilmente a dire:- Immagina, puoi...- Tutto ciò è agghiacciante e disrienta il mio istinto all'educazione più dell'atteggiamento imbronciato e ipercritico della mia piccola ribelle e, come se non bastasse, esempi di tale raggelante coincidenza se ne possono trovare a bizzeffe. Questo mi irrita talmente che potrei cominciare a parlare un italiano alternativo, inventando neologismi, stravolgendo le parole perché riprendano il loro posto e soprattutto riprenda posto in me e di conseguenza in mia figlia, la sensazione che le parole che dico mi appartengono, come i pensieri. Non escludo di arrivare a farlo: Totò lo fece molto prima e in modo molto semplice dopo tutto; potrei arrivare a farlo anch'io, attingendo alla sua genialità. Nel frattempo sorseggio il mio caffé, assaporo la torta al cioccolato e guardo fuori, concedendomi una mossa del tutto imprevedibile da parte di chi confeziona messaggi pubblicitari: il silenzio. Devo assolutamente raddoppiare i miei sforzi nell'insegnare a mia figlia quanto esso sia prezioso e non commercializzabile e quanto sia in realtà un potente veicolo di comunicazione. Soprattutto del pensiero. Soprattutto fra neurotrasmettitori e sinapsi. Nel frattempo Totòsofia come se piovesse e calma, assoluta calma; anche perchè, parafrasando appunto il Totòpensiero, non è il caso di arrivare a colluttarsi, soprattutto per chi come me non ama il colluttorio.