25 Aprile

Casone di Stecca, pendici del Ramaceto

Il Ramaceto è già Appennino Ligure. È un signor monte. È così alto che lo posso guardare perfino dalla spiaggia dove passo l'estate. È un'onda di roccia e la neve ogni inverno copre la sua cresta come spuma. Sul versante opposto è tutto verde e fitto di boschi ma verso il mare è brullo e sassoso, è come un fondale marino risalito su in alto a guardare la costa con immobile nostalgia. Da qualche anno vado lassù ad aspettare il 25 Aprile, anche se non posso spostarmi ci vado col pensiero, arrivo a piedi lungo la strada fino al casone di Stecca e aspetto. C'è un silenzio vivo, tremante e l'aria dolce che soffia tra i fili d'erba e lo sguardo può arrivare senza alcuno sforzo fino al mare. C'è un cartello che dice pericolo attraversamento mucche e si può stare lì per un giorno intero senza incontrare nessuno. Non posso immaginare un altro posto capace di contenere tutto ciò che è stata ed è la Resistenza. Qui invece è perfetto: per Bisagno che salì su da Chiavari con gli altri, certo, per il coraggio pagato a carissimo prezzo da quelli giù in valle, ma anche per il cielo, i prati, il silenzio che sono una eterna celebrazione dei valori altissimi, dei semi di civiltà e democrazia, della vita data per fermare la morte. Da qui, dalle finestre di questo casone, si vede lontano, molto lontano, oltre i grappoli di case della valle, oltre i monti del preappennino, oltre l'esigua fascia di balneare frenesia addossata alla rena. Si vede che la terra è terra e il mare è mare. La retorica svanisce come nebbia da questo posto, così come l'inganno dalle parole.

Finestre aperte



Ogni tanto devo tornarci su questi sentieri, altrimenti rischio di non ricordare da dove viene la mia visione del mondo. È facile dimenticarlo se non si vive alla sua reale altezza, se si vive a livello del mare, anche se uno se la tiene stretta. Credo che la diffidenza propria dei liguri come me venga da questo, dal fatto che ogni passo che facciamo in pianura è pensato come se fosse appoggiato con ostinazione al dirupo che precipita nel mare: il terreno si sbriciola sotto le nostre suole anche in pianura, anche sull'erba di un parco, o sull'asfalto. Anche una certa nostra immobilità, che ha portato nei secoli intere generazioni a ritirarsi nelle valli dell'entroterra, dipende da questa visione. Non perché spiccare il volo ci spaventi, tutt'altro. È che impieghiamo moltissimo tempo a scandagliare il paesaggio che abbiamo di fronte, fino a delimitare tutte le sfumature di azzurro, fino a tracciare tutti i contorni di terra acqua e cielo. È una vista che ci incanta e ci tiene lì, sospesi, riluttanti ad abbandonare il tepore confortevole di tutta questa bellezza. Sulla linea di questo orizzonte ci sta tutto: il passato, il futuro, le terre del sogno, le avventure. Il mare non è più una distanza, visto da qui, ma una via di comunicazione che si può percorrere a piedi, seguendo l'azzurrino delle correnti come fossero piste carovaniere. Affacciata a questa visione, due giorni fa ho provato una specie di gioia al pensiero che la Sardegna da questo cornicione di terra non si veda. Mi sono resa conto di tutti i modi in più che ho di guardarla, proprio grazie a questa sua invisibilità. D'inverno non saliamo mai sul davanzale di terra di questo golfo. Aspettiamo l'arrivo della primavera, come si aspetta di vedere nuovamente aperte le finestre di una casa silenziosa. Forse quassù d'inverno potremmo perfino avere paura di tutto questo spazio infinito. O forse potremmo scoprire un confine troppo lontano e ritirarci indietro oltre questi monti e dimenticare il mare.