senza titolo

(particolare)


Oggi ho riletto l'archivio di questo blog, questo mio giardinetto per l'anima e la mente. L'ho fatto in un modo ben preciso, osservando con attenzione il numero di post per mese e i mesi di attività del blog per ogni anno, a partire da quello in cui l'ho creato. Era cominciato come un gioco, e in fondo lo è tutt'ora, ma mi accorgo adesso che, pur nella sua inconsistenza, questo "posto" conserva testimonianze molto importanti di come ho vissuto gli ultimi sei anni. La mia voglia di comunicare, di creare, la mia fede incrollabile nella bellezza come parte di tutte le cose, tutto quello che ho portato di me qui risulta annotato con precisione, tanto che adesso, rivedendo l'archivio, è come se mi trovassi di fronte a un diagramma, alla rappresentazione della mia condizione più profonda. Mi rendo conto adesso che ogni post corrisponde a un momento ben preciso, così come l'assenza di post o la diminuzione di frequenza nel pubblicarli corispondono a una condizione ben precisa. È un percorso reale, tanto che riconosco ogni passo e il punto in cui mi trovavo quando l'ho compiuto. C'è annotato cosa stavo cercando quando ho cominciato a scrivere qui, e ci sono riportate tutte le cose che mi hanno distratto dalla mia ricerca o che l'hanno accompagnata senza un legame evidente. Mi colpisce molto notare che ad un certo punto, a metà percorso circa, la mia energia sembra sgocciolare dai pochi o inesistenti post. So perché smisi di scrivere, ma non mi ero resa conto di quanto fosse rimasto annotato qui. I titoli dei post..... se li leggo di seguito sono un lungo discorso, sono una conversazione. Non so, o forse non voglio dire quali siano le domande e quali le risposte, quali le suggestioni e quali le deduzioni, però vedo che si tratta del testo di una conversazione molto privata, che ho portato qui per darle respiro, perché non avrei saputo esprimere me stessa così liberamente se si fosse trattato di una conversazione reale. E poi avevo, credo, il bisogno di trovare dei simili per il mio interlocutore, avevo bisogno di trovargli una collocazione fisica, organica, esterna. Era un interlocutore da costruire totalmente, nessuna sorpresa che anche a me sia venuta l'idea dell'immagine e della somiglianza, sebbene nel ristretto orizzonte della mia umanità. Abbiamo parlato sempre, da un certo momento in poi lo abbiamo fatto col silenzio. Riconosco gli avvenimenti della mia vita reale sul diagramma dell'archivio, ne posso addirittura distinguere la natura, il grado di nocività o, come nel caso di quel carcinoma, di salubrità. Dopo tutto è stato quello a risvegliarmi.



Pennellate a scatti

(particolare)

Purtroppo l'immagine intera del dipinto di Antonio Ballero in copertina di questo libro non è reperibile in rete. È un olio su cartone, 16 x 24,6, intitolato "I gabbiani", anno 1929. Ho cercato a lungo, senza successo. È un peccato davvero, perché il dettaglio scelto per la copertina non è assolutamente in grado di raccontare la grande bellezza di questo piccolo dipinto. L'ho incontrato sfogliando un'altra monografia su Ballero e mi ha colpito moltissimo, perché mi ha fatto subito pensare alla raccolta di fotografie che questo straordinario pittore scattò nei primi anni del Novecento e che si possono ammirare in rete nella raccolta Fondo Ballero, sul portale Sardegna Digital Library. 
Il collegamento è stato immediato, perché avevo già notato, scorrendo le foto di Ballero, che alcune sono come dipinti, ma non avevo ancora trovato nessun dipinto suo che parlasse a sua volta come una fotografia. Ed eccolo qui. Non sono in grado di tradurlo in parole, se avessi potuto pubblicare l'immagine del dipinto intero le mie parole sarebbero state del tutto superflue. Tuttavia non ho trovato quell'immagine e allora provo a descrivere, chiedendo perdono in anticipo per la presunzione e per l'inesattezza della mia visione. La tavola è interamente dominata da quelle nozze fra cielo e mare che si vedono oltre la figurina. Accanto a questa ce n'è un'altra, del tutto simile, eppure straordinariamente differente. Non è per i tratti del viso, o per l'espressione, ma per la posizione dell'intera figura, che appare più minuta, o più indietro rispetto alla sua compagna. Inoltre ha il capo rivolto in direzione del pittore, leggermente chino con una morbidezza che sembra avere un suono, ma anche questo partiolare, pur esprimendo una bellezza silenziosa e ricercata, non è la ragione della forza fotografica di questo dipinto. Io credo che tutto stia nel modo in cui le due figure tengono il capo. Una in funzione dell'altra. La figurina a sinistra è come fissa, quella di destra si volge di lato. Intorno i gabbiani confondono le ali con le onde del mare e con le tese dei copricapi delle due monachine ed è proprio la loro presenza a svelare il segreto di questo dipinto, perché i due copricapi, che ricordano le loro ali, sembrano tracciare due traiettorie, una fissa, diritta, impeccabile; l'altra imprevedibile, sorprendente come una virata su una corrente ascensionale. Il colore tasmette infinite percezioni, l'aria prima di tutto, il rumore e il profumo del mare, i verso degli uccelli che non possono essere altro che gabbiani d'altura, il respiro lieve delle due figurine che si avvicinano, o spiccano il volo anche loro, come lo fa un'orazione o un pensiero. Pubblico anche una delle splendide fotografie di Ballero che essendo integra parla da sola, dice a voce alta il grande talento di questo straordinario pittore di fotografia.

Mesa 'oche

"Pianu e a pagu a pagu, cun una òghe amorósa..."


Piano e a poco a poco, con una voce amorosa. Il Vocabolario Sardo Logudorese - Italiano di don Pietro Casu (Berchidda, SS, 1878-1954) alla voce "amorósu" dice testualmente: amoroso, benigno, buono. Piano e a poco a poco, con una voce buona. Quando ho ascoltato per la prima volta Paolo Angeli cantare questi versi, ho pensato che stesse narrando di un addio. E in effetti il suo canto è triste, non è un canto di allegria. E a me sembra dica che nell'addio c'è una forma di Bellezza così difficile da comprendere per gli esseri umani, da rendere necessario condurre l'addio in questo modo, per poterla ammirare: piano e a poco a poco, con una voce buona. Secondo il Casu, in Logudorese, cioè nel Sardo più colto, quello che ha sempre affiancato il Latino nella storia della Sardegna, "Pianu" si traduce in italiano con "piano" anche inteso con il significato di "a bassa voce". A bassa voce e a poco a poco, con una voce buona. Mio padre, andandosene, mi ha detto addio così, esattamente così. Ci ho pensato tanto, dopo, con consolazione, perché ho sempre avuto paura, fin da bambina, del lato cupo, spento e violento dell'addio, di ogni addio e per reazione, forse per ribellione, ho messo quasi subito fra le mie convinzioni quella che l'addio sia un saluto mesto e non la fine. L'addio porta in sé l'eternità. Nessuna delle cose cui si dice addio finisce davvero. Finiscono le abitudini, le consuetudini, alcune certezze, ma il saluto mesto è come un gesto lungo, lento, che porta l'altro, colui che se ne va, molto lontano nel tempo a venire, nella nostalgia. Altrimenti non si dice addio, si ignora, si guarda altrove. La Lingua Sarda è una delle lingue del mondo capaci di descrivere ogni respiro dell'umanità, ogni percezione dell'animo umano. Con sintesi straordinaria, che stilla dalle affermazioni, dalle domande, dalle considerazioni come Filosofia. Le parole in Sardo sono gocce di colore a tempera, basta sfiorarle e si sfanno in mille rivoli di significato, oppure ne hanno uno solo, per servire la Verità. Il Vocabolario di don Pietro Casu è una tavolozza, una tela Divisionista e Impressionista. Basta leggere una definizione per vederla emergere. Nei versi, autentici, meravigliosi versi, cantati da Paolo Angeli c'è l'articolo indeterminativo "una". Cerco la definizione sul Casu e leggo: 

una: avv. una, insieme. Una cummegus, cun isse, cun sos cumpagnos insieme con me, con lui, coi compagni. | Tot’in una improvvisamente. Tot’in una l’hapo ’idu ruendhe all’improvviso l’ho visto cadere. | Andhare una cun Deu andar con Dio. | In una in una: no tremesit sa terra in una in una? (Delogu Ibba). | Cust’est una! quest’è bella! | It’est una, it’est una? indovina, indovina! Si premette agli indovinelli. | A sa una all’una. S’una posca ’e mesanotte l’una dopo mezzanotte.

 insieme. Come dire che il Tutto è Femminile. Andhare una cun Deu, come dire che Dio, il Tutto, è Madre.







Da dentro





Ho trovato per caso questo video in rete, è talmente bello che mi è venuta voglia di scriverne. È un film vero e proprio, pluripremiato, commentato dalla voce di un grande attore, Riccardo Cucciolla, che legge testi di Manlio Brigaglia, grande storico e conoscitore della cultura sarda. Il commento parlato è molto interessante, fornisce particolari sulle usanze, ma ha un "tono" che non mi piace, parla di Sardegna, la spiega, come se fosse una galassia lontana. A me invece questo film ricorda il paese di mia nonna paterna, le strade di pietra, le donne vestite di nero, la vita in comune, per le vie, la comunità. Le foto del matrimonio dei miei genitori sono in bianco e nero, ma il paesino davanti al mare di Levanto ha gli stessi colori di pietra e semplicità. Per ambizione, per vezzo e forse imbarazzo nelle foto dei miei genitori non si vedono le pecore che invece erano in giro, nei prati, negli ovili. E poi le donne che cucinano, i gesti, li riconosco, li ho visti, il modo di stare chine, il modo di girare un cucchiaio in una pentola. In questo film, rispetto ai miei ricordi liguri c'è qualcosa di più, c'è il gusto, lo stile sardo. Ho tolto l'audio per godermelo in santa pace. Mi piace il corteo serio, composto, che attraversa il paese. Mi piace il colore intenso della sala da pranzo, le padelle di rame lustre, ordinate, le caffettiere appese ai chiodi con una semplicità che è Bellezza. È molto più bello visto senza audio, non c'è nemmeno bisogno della musica, la danza è ovunque, nel corteo, nelle donne che offrono antichi gesti di buon augurio, nelle donne che cucinano e che servono i dolci sistemati sulle alzate e nei cesti con un amore per il bello che commuove. Senza l'audio sono le scene a parlare, sono così autentiche che quando il film è finito mi sembra di aver ascoltato voci e passi, e respiri. Ero a Ittiri il primo giorno dell'anno. Guardavo la campagna verdissima, la macchia, il monte Torru, quando un piccolo gregge è arrivato di corsa da dietro la collina e ha sfilato davanti a me. Non vedevo un gregge da quando ero bambina, e passavo le vacanze estive nella casa della mia nonna paterna da cui si vedeva il mare. Il film comincia con l'arrivo di un pastore che conduce le sue capre. Lo guardo, penso alle pecore della mia nonnina, penso alle pecorelle di Itiri Cannedu e mi dico che non è così, non si può capire la cultura della terra e del pascolo guardandola da fuori. A Ittiri sono rimasta immobile, lasciando che l'onda riccioluta e soffice mi passasse accanto. C'è qualcosa di misterioso nel passaggio di un gregge, gli animali corrono come suorine in ritardo per la messa, non hanno corde o guinzagli ma sono tutti legati fra loro e al loro pastore. C'è un patto doloroso e magico in un gregge che passa.

Visioni

Cosa sto cercando? Perché qui? Forse la mia è solo presunzione di saper cogliere l'essenza di quest'Isola, ma non è semplice, non quanto lo è amarla, ci vuole una capienza mentale, intellettuale, emotiva, sentimentale, una capacità enorme per sintetizzare un continente. Forse è più logico, più umano, concentrarsi su un particolare, sul più piccolo dettaglio di cultura che si riesce a comprendere, ma saperne trascrivere l'essenza è un progetto davvero troppo ambizioso. Ad ogni nuovo argomento che affronto è come se la vera estensione dell'Isola mi si aprisse davanti. Eppure, comunque andrà questo mio viaggio, non posso ignorare nemmeno un particolare, devo conoscere, devo sapere il più possibile. È come cercare di dare un nome ad ogni foglia d'alga arenata sulla battigia. La sua storia è fatta di esseri viventi, nomi che si susseguono, entrano ed escono dai confini dell'Isola e li scopro parte della mia storia, è tutto lì, alla luce del sole, a dimostrare il valore della conoscenza o quanto poco so in realtà ascoltare. Ora, se ne avessi il tempo, se mi trovassi più vicina delle poche decine di chilometri che mi separano da Genova, infilerei il cappotto e scenderei a piedi nella piazzetta di San Matteo, la piazzetta dei Doria. Lì c'è il palazzo di Branca Doria, proprio a ridosso della chiesa. Mi metterei lì, al centro di quella piazza che sembra una scenografia teatrale e aspetterei di veder tornare l'uomo che determinò la fine del Giudicato di Torres uccidendo il suocero Michele Zanche e che visse a lungo e fu giustiziato a Sassari. Uscirebbe dall'ombra tremula del caruggio, così vero che potrei mettermi al suo fianco e accompagnarlo fino all'entrone.







È come una lenta messa a fuoco: l'occhio viene attratto da un dettaglio e si concentra su di esso, ma ecco che il campo visivo si allarga, nomi, date, epoche fanno la loro comparsa. Sono partita da una città particolare, perché sentivo che avrei potuto camminare per le sue strade senza sentirmi affatto forestiera, e così è stato. Poi, arrivata lì, l'orizzonte si è allargato, invitante. La storia...più mi addentro nelle "isthrinte" delle epoche, dei secoli, più mi sembra vero il verso poetico con cui Sergio Atzeni aveva intitolato il suo straordinario romanzo: "Passavamo sulla terra leggeri". Ho la sensazione che la storia degli esseri umani sia stata semplicemente accolta dall'Isola, in un modo molto simile a quello con cui Essa accoglie gli uccelli che vengono dal mare per nidificare. È come se di fronte alle vicende più drammatiche o fatali si ergesse una specie di dubbio, una percezione intima della levità di tutte le cose e l'accoglienza dell'Isola fosse ciò che davvero conta, ciò che dura. È difficile da spiegare per me, ma accadono piccole cose straordinarie su questa Terra. Qui ho visto per la prima volta una bellissima signora cinese servirci una classica cena da ristorante con le lanterne rosse all'ingresso, ma nominando i piatti nella sua lingua; quando le ho detto che quei suoni erano bellissimi, lei li ha ripetuti modulandoli con più attenzione, con anima, muovendo la mano con movenze che ho subito riconosciuto essere le stesse del Thai Chi. Mentre ammiravo l'eleganza di quei gesti ha sorriso ancora e ha detto "mi piace molto cantare", e dalla sua figurina minuta è uscita una miniatura cinese di una bellezza struggente, la piccola testa inclinata di lato, le braccia incrociate in avanti e la voce, cristallina, un tintinnio di parole misteriose e belle. Tornando a casa ho pensato che solo su quest'Isola, probabilmente, si può vedere l'identità degli esseri umani, la forza armoniosa della loro appartenenza, la fierezza gentile di essere parte.



a boche amorosa

Ho appena visto l'idea più comune di "Sardegna" passare alla tv: le spiagge, le greggi, il pastore che ancora oggi affonda le mani nel latte cagliato e ne trae formaggio, l'artigianato, i costumi, il territorio. Mi è sembrato di sfogliare uno di quei libretti di pochissime pagine, rettangolari, intitolati mi sembra "Le mie ricerche", che comperavo quando avevo sette o otto anni: stesse illustrazioni, stesse informazioni stereotipate, stessa incolmabile assenza di un qualsiasi riferimento storico. Amo quest'Isola, perché continua ad essere ignorata, minimizzata, messa da parte. Conosco gente che vi sbarca ogni estate e non sa niente della quotidiana, secolare abbondanza di Bellezza appena dietro la scenografia balneare. Certi addirittura riempiono sacchetti di plastica con le sabbie colorate delle sue spiagge, che poi immagino rovescino negli acquari domestici, convinti che non importi a nessuno. Non sanno che ogni granello di sabbia, ogni filo d'erba, ogni frammento di conchiglia, di roccia, ogni briciola di terra, ogni goccia d'acqua, ogni essere vivente è parte necessaria all'Isola, è custode e tesoro prezioso allo stesso tempo. Non sanno dei gesti compiuti da secoli per dire va bene, a domani, come stai, o degli occhi che all'improvviso si accendono di una fierezza scura, cauta, mite. Non sanno delle mani che intrecciano sapientemente erba e si lasciano baciare con umiltà, con gratitudine, né della straordinaria altitudine cui arriva il pensiero di chi custodisce l'Isola nelle azioni quotidiane più semplici. Amo quest'Isola tenuta a freno, unificata da almeno due secoli sotto una coperta pesante di generalizzazione, di superficialità. All'inizio degli anni '70 avevo diversi compagni di scuola che provenivano dalla Sardegna. Per noi del posto erano semplicemente "sardi", né ho mai sentito nel corso degli anni alcuno di loro rivendicare un'identità più precisa. Li immagino sbarcare al porto di Genova, dopo una navigazione tranquilla, cielo sereno, ottima visibilità, scendere dalla nave e vedere un caigo denso arrivare da terra: la nebbia pesante e lattiginosa della nostra ignoranza, la nostra offerta di integrazione. Avranno avuto cose meravigliose nei loro bagagli, le forme del pane quotidiano, il modo di dire una parola, il modo di manifestare l'allegria o di aspettare, gli accenti e i tratti delle genti venute nei secoli a conquistare. Credo lasciassero pulito e libero un angolo della propria anima, del cuore, partendo da Porto Torres e che arrivando riponessero lì le loro innumerevoli identità, le loro eredità meravigliose. A noi sorridevano, miti, gentili, scoprendo denti bianchissimi oltre i quali serbavano parole e pensieri che non avrebbero potuto condividere. Erano infinitamente più colti di noi, sapevano che non sarebbe stato possibile spiegarci l'immensa complessità del loro piccolo continente in mezzo al mare, sapevano che non avremmo capito.






Paolo Angeli

Un bel daffare





"Un trasloco dalla mente al foglio" è come dire metti le immagini, e le parole che servono per descriverle, in viaggio. Seguo il suggerimento prezioso e comincia un viavai, un traffico invisibile, inudibile, ma per me coinvolgente e sonoro, più o meno così.
(Grazie...)



Non è la fede che ha cambiato la mia vita, ma l'inchiostro...



Giuseppe Biasi

Il primo giorno di questo nuovo anno ero lì, e all'improvviso ho capito che il viaggio è molto più lungo, molto più complesso di quello che credevo e che non morirò prima di averlo compiuto. Amare una città insegna, fra tante altre cose, che a volte si può capire la direzione da prendere solo trovandosela davanti. Così questa città bellissima, che credevo essere la mia meta, si è rivelata in realtà la mia porta verso l'Isola più bella del mondo. Un sentiero adatto a me, percorribile, un cammino agevole, disseminato, punteggiato di richiami alla mia riva, la riva da cui parto, pieno di parole che somigliano alle mie. È tipico della Sardegna questo modo di invitare ad entrare, questa accoglienza che non è cortesia, non è gentilezza, ma empatia, comprensione. Sono stata accolta nello stesso modo da volti sorridenti, da sincere strette di mano, nello stesso identico modo in cui l'Isola mi ha aperto questa città come una porta, invitandomi ad entrare. Sono a mio agio, esploro in lungo e in largo la storia di questa città, incredibilmente intrecciata con la mia, descrivo la sua bellezza e intanto sento un dialogo più intenso, una voce più discreta, che mi invita ad ascoltare. È l'Isola, è la sua voce. È ancora difficile per me descriverla, identificarla, darle un nome, è come un suono prodotto dal vento mentre attraversa cento fenditure di roccia, di rami, di nuvole, di sabbia, di terra, di piume d'uccello, di ogni più minuscola forma che se ne stia ferma sulla terra dell'Isola. Da quando questo viaggio si è fatto più chiaro, la scrittura ha assunto un valore nuovo, ha cambiato la sua natura, ha smesso di essere strumento per parlare ed è diventata una specie di vela, un pezzo di legno su cui navigare quel vento, l'unico modo a me concesso di attraversare quelle cento fenditure tutte assieme. Ne scrivo qui, perché non posso portare da sola tutta questa bellezza, nessun essere umano può.