Alla Scuola Elementare, secoli fa oppure ieri, non saprei, ricevevo sempre molti complimenti dalla mia maestra, per come sapevo recitare la poesia che avevamo il compito di imparare a memoria. Bellissima consuetudine e motivo di notevole orgoglio per me e devo dire di ammirazione sincera da parte dei miei compagni. La maestra ci spiegava che dovevamo sforzarci di non fare dei versi poetici una cantilena, ma capirne il significato, quello che intendeva dire il Poeta, per esprimere nel modo migliore il senso del testo. Tutti noi alunni ci impegnavamo moltissimo: c'era chi si fermava ad ogni cambio di riga, per far capire che sapeva che lì c'era una pausa; chi non distoglieva lo sguardo dal viso sorridente e incoraggiante della maestra, come fosse stato la pagina del libro di lettura; chi cercava addirittura di correggere con particolare attenzione la zeta sibilante dialettale, abituata ormai ad uscire dalle labbra musicale e libera e nel tentativo di nobilitarla conferiva alla parola un suono sferzante e duro, così innaturale da scatenare risate irrefrenabili da parte del pubblico fin troppo partecipe. Tutti quanti, però, finivamo sempre con l'ondeggiare lievemente al suono della nostra recitazione ed era quello il momento in cui la mente viaggiava da sola fra i versi del testo e correva felice fino alla fine, fino all'ultima riga. Allora non capivo, nessuno seppe spiegarci, che in realtà la migliore recitazione non era la mia. I miei compagni, più colti di me, non costretti entro la sintassi e la pronuncia priva di inflessioni dialettali che mia madre si era impegnata così tanto ad insegnarmi insieme al modo di tenere in mano il cucchiaio, capivano per affinamento culturale nelle loro radici, per naturale inclinazione del parlare popolare, che la Poesia era prima di tutto Musica e dopo i primi versi impeccabilmente detti con la risolutezza necessaria, cedevano al loro talento di assidui ascoltatori dei ritmi musicali del mondo, metrica infallibile, incontestabile, libera, e concludevano la recitazione del testo danzando in parole e gesti. Ho capito questo moltissimo tempo dopo: ascoltando la poesia popolare, la canzone popolare, i dialetti e le lingue ridotte a tale ruolo linguistico e mi sono resa conto di essere partita per il mio viaggio senza questa parte di ricchezza. Poi è arrivato questo film e Troisi, senza il quale nessun istante di questa storia sarebbe stato uguale, altrettanto potente. Questo momento del film è una vera lezione di Poesia. Insegna che i suoni intorno a noi non solo sono fatti di note, ma sono spartiti veri e propri, riscritti senza posa e che le parole che li descrivono hanno la capacità di esserne strumento o solo annuncio. Insegna che la Poesia necessita di un suo proprio svezzamento, un periodo in cui si impari a metterla in bocca a pezzetti piccoli, sconnessi, staccati dal testo, per impararne il sapore, per capire come masticarla e migliorarsi ogni volta fino ad essere capaci di farne sostentamento. Quante definizioni si possono dare della Poesia...cibo, musica, scienza perfetta, anarchia possibile, canto universale, voce dell'anima, silenzio e suono insieme, sguardo sul mondo, desiderio, denuncia, dialogo...
A misura duomo
Parma, Duomo e Battistero
"Ho sempre avuto un rapporto difficile, ma costante con la città.
Luogo arduo da praticare per chi viene dalla campagna.
Prendo a prestito le scarpe da tennis di Jannacci e la giro volentieri guidato da una cartina strappata da una di quelle guide turistiche che vengono pubblicate ogni anno, sempre sostanzialmente eguali.
Con la cartina mi oriento per vie, chiese, monumenti e sporadicamente musei, e ne vivo criticamente la confusione alla ricerca della essenza del luogo, guidato dai versi della canzone di Gaber ( Quant'è bella la città). Canzone che disattendo, perché me ne torno alla fine in campagna.
E credo che l'essenza della città sia nella sua gente senza identità, nei suoi bus di linea, nella ordinata indeterminatezza in cui ciascuno confluisce. " Costantino
Mi piace molto questo piccolo viaggio in città che Costantino ha descritto e lasciato accanto ad un mio post. Mi è piaciuto leggerlo e l'ho fatto diverse volte, ripetendo a me stessa, fra le altre cose, quanto sia preziosa la rete quando, come in questo caso, permette di entrare in modo così vivo nella visione interiore che una persona ha del mondo. Questa di Costantino è una descrizione molto coinvolgente, sonora e colorata, piena di sensazioni e suggestioni, di richiami alle radici e al tempo scandito da canzoni che sono anche il mio calendario musicale. Bellissima. Ho assaporato tutto questo piccolo, intenso viaggio in città, ma nella sua conclusione, che mi è sembrata proprio uno sguardo da lontano tornando verso casa, sta forse la ragione principale del mio voler riprendere le sue parole: il desiderio di fermarmi idelamente, proprio in quel punto da cui Costantitno sembra salutare la città prima di lasciarla, e parlarne ancora. Mi permetto di farlo, grazie alla gentilezza consueta di questo signore che non conosco personalmente e che sa stare in rete con realissima e preziosa umanità.
La frase conclusiva del pensiero di Costantino mi ha suggerito, come ho detto, la visione di un viaggiatore che, uscito dai confini di una città, si fermi per osservarla un'ultima volta da lontano; non è difficile immaginare che i viandanti in epoca medievale facessero lo stesso e che forse proprio davanti a quella veduta da cartolina illustrata decidessero, avvicinandosi alle sue mura, di stabilirsi in quella data città o di lasciarla per sempre, allontanadosi dalle sue porte. Questa immagine mi ha portato a riflettere su quale sia, oggi, il punto da cui possiamo osservare con quello stesso sguardo le nostre città. La maggior parte di esse è circondata dalla così detta zona industriale, che in un certo senso ricorda un po' un immenso fossato o la fascia di terre incolte e inospitali che assediava le mura medievali. Nell'Alto Medioevo la città nasceva in Europa come luogo sicuro, punto di riferimento visibile da lontano, prestandosi ad un'evoluzione che in Italia la portò a rappresentare nei secoli successivi un fortissimo valore identitario non solo geografico o culturale ma politico e di conseguenza sociale. Solo i centri ingiustamente definiti minori, o le "città d'arte" offrono oggi al visitatore questa visione d'insieme capace di comunicare a chi si avvicina il messaggio incredibilmente avveniristico che già dopo l'anno Mille la città comunale custodiva. Per molti capoluoghi il destino è differente: solo sorvolandoli si può constatare in una sola veduta il processo di trasformazione che ne ha modificato la forma e ampliato il territorio e spesso il fossato industriale si confonde con le aree abitative in quella "ordinata indeterminatezza" che velava di tristezza la conclusione del viaggio di Costantino e che costituisce sempre l'ultimo, inquietante sguardo d'insieme dietro di noi, mentre ci allontaniamo. Ed é quasi sempre il fossato ad accoglierci, quando ci avviciniamo ad una grande città italiana ed è così desolante, così corrosivo dell'identità urbana, della sua storia, da convincerci che oltre non ci sia più nessuna traccia identificabile, nessuno svettare di torri o cupole a ricordarci la preziosa e multietnica cultura di cui siamo intrisi. E questo solo perché ci manca la visione globale della cittade e con essa la memoria rinnovata, quotidiana, del nostro patrimonio culturale. Le città italiane sono isole, arcipelaghi di cultura e mi attraggono, dalle più grandi a quelle ridotte ormai a poche rovine. Allo stesso modo mi attrae il concetto storico e del tutto italiano di città, quello del Pieno Medioevo, quello che ha formato dapprima una coscienza civile e poi in essa e con essa la consapevolezza umanista e l'approccio alla modernità. Percorrere i centri storici è come sfogliare libri ricchissimi di immagini tridimensionali e di suggestioni che hanno fondamenta solide nelle vicende del nostro Paese. Le strade si incrociano ad angolo retto, o più spesso seguendo semicerchi ideali, per poi sfociare nella piazza maggiore, al cospetto di un duomo che è a sua volta biblioteca e non solo libro di orazioni. Tocca scavalcare paludi, fossati, attraversare perigliose contrade, ma la cittade è sempre lì, capolavoro del futuro, a ricordarci la nostra statura e la misura dei passi che possiamo ancora fare.
La frase conclusiva del pensiero di Costantino mi ha suggerito, come ho detto, la visione di un viaggiatore che, uscito dai confini di una città, si fermi per osservarla un'ultima volta da lontano; non è difficile immaginare che i viandanti in epoca medievale facessero lo stesso e che forse proprio davanti a quella veduta da cartolina illustrata decidessero, avvicinandosi alle sue mura, di stabilirsi in quella data città o di lasciarla per sempre, allontanadosi dalle sue porte. Questa immagine mi ha portato a riflettere su quale sia, oggi, il punto da cui possiamo osservare con quello stesso sguardo le nostre città. La maggior parte di esse è circondata dalla così detta zona industriale, che in un certo senso ricorda un po' un immenso fossato o la fascia di terre incolte e inospitali che assediava le mura medievali. Nell'Alto Medioevo la città nasceva in Europa come luogo sicuro, punto di riferimento visibile da lontano, prestandosi ad un'evoluzione che in Italia la portò a rappresentare nei secoli successivi un fortissimo valore identitario non solo geografico o culturale ma politico e di conseguenza sociale. Solo i centri ingiustamente definiti minori, o le "città d'arte" offrono oggi al visitatore questa visione d'insieme capace di comunicare a chi si avvicina il messaggio incredibilmente avveniristico che già dopo l'anno Mille la città comunale custodiva. Per molti capoluoghi il destino è differente: solo sorvolandoli si può constatare in una sola veduta il processo di trasformazione che ne ha modificato la forma e ampliato il territorio e spesso il fossato industriale si confonde con le aree abitative in quella "ordinata indeterminatezza" che velava di tristezza la conclusione del viaggio di Costantino e che costituisce sempre l'ultimo, inquietante sguardo d'insieme dietro di noi, mentre ci allontaniamo. Ed é quasi sempre il fossato ad accoglierci, quando ci avviciniamo ad una grande città italiana ed è così desolante, così corrosivo dell'identità urbana, della sua storia, da convincerci che oltre non ci sia più nessuna traccia identificabile, nessuno svettare di torri o cupole a ricordarci la preziosa e multietnica cultura di cui siamo intrisi. E questo solo perché ci manca la visione globale della cittade e con essa la memoria rinnovata, quotidiana, del nostro patrimonio culturale. Le città italiane sono isole, arcipelaghi di cultura e mi attraggono, dalle più grandi a quelle ridotte ormai a poche rovine. Allo stesso modo mi attrae il concetto storico e del tutto italiano di città, quello del Pieno Medioevo, quello che ha formato dapprima una coscienza civile e poi in essa e con essa la consapevolezza umanista e l'approccio alla modernità. Percorrere i centri storici è come sfogliare libri ricchissimi di immagini tridimensionali e di suggestioni che hanno fondamenta solide nelle vicende del nostro Paese. Le strade si incrociano ad angolo retto, o più spesso seguendo semicerchi ideali, per poi sfociare nella piazza maggiore, al cospetto di un duomo che è a sua volta biblioteca e non solo libro di orazioni. Tocca scavalcare paludi, fossati, attraversare perigliose contrade, ma la cittade è sempre lì, capolavoro del futuro, a ricordarci la nostra statura e la misura dei passi che possiamo ancora fare.
Giovanni Stefani, L'amante felice
Marco Beasley
Ensemble Accordone
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