Un sentiero



Mi piace portare in testa, dentro la testa, una frase su cui riflettere. Per me è un po' come camminare e io adoro camminare. La frase, poi, somiglia in tutto e per tutto a un sentiero e il modo di entrare nella riflessione che suggerisce, la fatica che richiederà percorrerla, lo stato d'animo in cui mi ritroverò uscendone, dipendono dagli stessi fattori che determinano il modo di affrontarne uno: attrezzatura adeguata e disponibilità al rischio di cadere, di farsi poco o tanto male e conseguente, necessaria volontà di rialzarsi. Lo scopo per cui ci si avvia per un sentiero è quello di tornare a casa. La meta, un picco, un'abbazia sperduta nel bosco, un promontorio sul mare, è solo un richiamo, il punto di arrivo apparente in cui disegnare la curva che riporta verso quello di partenza, che è in realtà la vera destinazione. Così succede nella mia testa quando porto con me una frase su cui riflettere. Mi incammino e così facendo mi allontano dalle mie certezze, dalle cose che so di conoscere, dal modo in cui le conosco, percorrendo la frase fino alla meta, cioè fino al ritorno alle mie certezze di prima e, come dopo una marcia faticosa e meravigliosa, alla fine del percorso mi ritrovo diversa. Pensare equivale a camminare.

" Noi possiamo accettare solo quello che possiamo rifiutare "
Qualche giorno fa un carissimo amico ha srotolato davanti a me questa affermazione come fosse una mappa e mi ha detto :- pensaci - ed io ho letto:- esplora - e ho cominciato a camminare. Questo sentiero presenta due punti di riferimento, di orientamento, molto importanti ed altrettante deviazioni. I punti di riferimento sono "noi" e "possiamo"; le deviazioni sono "accettare" e "rifiutare". Quando si comincia a camminare è molto importante tenere d'occhio i punti di riferimento. Serve non solo ad evitare di perdersi, ma anche a lasciarsi andare al passo e alla meraviglia di osservare ciò che si ha intorno, senza curarsi di altro che non sia il limite di sicurezza entro cui ci si muove. "Possiamo" è un riferimento che rasserena molto, dispone l'animo a godere del viaggio, del passo scelto, ad assecondarli e sincronizzarsi su di essi. Potere significa essere in grado, avere il permesso, avere l'autonomia di decidere. Essere consapevoli di questo, camminando, è garanzia di poter percorrere il sentiero fino in fondo. Andando a piedi sui rilievi a ridosso del mio mare, mi sono resa conto che tutti i percorsi sono collegati fra loro così, se ad un bivio decido di svoltare a destra, so già che prima di arrivare all'altro capo di quella deviazione potrò ricongiungermi con la deviazione di sinistra. Questo mi fa pensare che nel tracciare vie di comunicazione l'uomo segua lo stesso criterio con cui definisce legami di relazione con l'ambiente e con i propri simili e che abbia previsto sempre, in ogni epoca, il ripensamento, o il timore della solitudine. Con queste considerazioni ben stipate su di me a mo' di genere di conforto, decido di imboccare la direzione di "accettare". Ora che ci sono sopra non mi sembra un sentiero particolarmente difficile o impervio. Accettare significa per me accogliere, fare proprio, dare a qualcosa di esterno o addirittura estraneo l'autorizzazione ad entrare a far parte di me. È un sentierino breve, piacevole, luminoso e confluisce quasi subito, dopo pochissimi tornanti, in quello contrassegnato dalla voce "rifiutare". Qui la difficoltà è maggiore, ma non spaventosa. Scivolo ogni tanto sul concetto di rifiuto, ma temo sia per via delle mie suole, da cui non ho rimosso qualche sasso raccolto per via. Lo faccio adesso e il percorso cambia. Rifiutare è adesso percorribile, anzi reso più dolce e invitante dall'accezione negativa di "partecipare". Immagino di essere con qualcuno che mi propone di fare qualcosa che non approvo; ho due modi per dimostrare la mia posizione: non accettare la persona che mi invita; non accettare l'invito. Quest'ultima eventualità è quella che preferisco perché non mi allontana dalla persona, ma solo dal suo agire. Certo l'agire di una persona può essere così diverso dal mio da generare un allontanamento totale, un bisogno vero e proprio di distacco oppure un progressivo e rapido processo di perdita di interesse, ma in linea di massima la mia indole molto comunicativa e curiosa mi porta a mantenere accoglienza verso la persona e semmai, se caso, rifiuto, cioè non partecipazione, verso il suo agire. Il sentiero segnato come "rifiutare" presenta una caratteristica tipica dei percorsi posti sui rilievi a picco sul mare: dopo una macchia di eriche basse può aprirsi all'improvviso uno spiazzo aperto e soleggiato in cui riposare o un dirupo spaventoso e un baratro sull'acqua verde - azzurra, senza altro scudo che qualche cespuglio di cineraria o di mirto, o qualche scheletro di agave ormai sfiorito. Qualche insidia ce l'ha, questo sentiero. Distrae dalla meraviglia che si può vedere intorno, che è propria di tutto, anche del pericolo, per spingere il cammino verso l'interno, verso il proprio sentiero interiore più tortuoso. Trattengo l'aria pulita che vi ho respirato e lo abbandono; tornerò verso casa passando per "accogliere", questo sarà di sollievo alla mia stanchezza. Prima di lasciarmi l'intero percorso alle spalle mi fermo a guardare ancora una volta l'apertura per cui vi sono entrata e i punti di riferimento, saldi, al loro posto, che mi permetteranno di ripercorrerlo: lo vedo tutto quanto adesso, dall'inizio alla fine; ho presente il suo fondo sconnesso, a volte agevole, la luce che attraversa gli alberi, le rocce e l'erba. Cerco di contenerlo tutto assieme per un momento: posso accettare solo quello che posso rifiutare. Caspita. È davvero molto quello che posso accettare. 


Grazie Giu

L'Argenta alla finestra



Qualche giorno fa mi sono ricordata della signora Argentina, l'Argenta, come la chiamavano i suoi familiari con quel modo un po' emiliano di togliere il suffisso a un nome e rendere così improvvisamente adulta una ragazzina. La signora Argentina era la zia di un nostro caro amico e veniva a trascorrere qualche giorno d'estate a casa della sorella, qui in Liguria, dalla sua Nonantola. Eravamo ragazzi allora, poco più che ventenni e non era raro che le sere d'estate ci riunissimo a casa di questo amico, che abitava in campagna. Ricordo che quell'estate la signora Argentina arrivò a casa del nipote un pomeriggio in cui eravamo affaccendati a preparare una cena all'aperto, fra noi ragazzi. Il nostro amico, di madre emiliana, aveva un numero quasi imprecisato di cugini che spesso venivano a trovarlo di passaggio per il mare. Ricordo molto bene quando la vidi arrivare: una vecchia signora dai capelli naturalmente scuri, lucenti e lunghi, tanto fluenti da portarli raccolti sulla testa in una grande crocchia. Non era affatto alta, ma la sua figura morbida aveva nell'incedere e nelle forme ancora generose l'imponenza di una matrona romana. Quella sera cenammo fra noi ragazzi sotto gli alberi, vicino alla casa; il buio scese col suo crescendo di grilli e di schiocchi notturni dietro i cespugli di eriche, più in là. La casa aveva tutte le finestre illuminate e spalancate ed era piena di gente: quasi in ogni stanza si poteva vedere qualcuno muoversi e le voci arrivavano generose, come musica. Cantammo anche quella sera, canzoni di ogni sorta: dai Duran Duran ai Tazenda, da De Gregori alle romanze. Fu proprio mentre cantavamo una di queste, " Musica proibita", che un piccolo dettaglio andò a fissare per sempre nella mia memoria quella serata; mentre salivano alle stelle i nostri cori e i "vorrei baciare i tuoi capelli neri...", istintivamente mi voltai verso la casa: la signora Argentina era affacciata alla finestra, quasi in posa, con un braccio piegato sul davanzale e un sorriso dolce sul viso paffuto e simpatico. Non smisi di guardarla finché la romanza non fu finita; allora, nel brusio che seguiva ogni esibizione, la vidi portare le mani alle labbra e mandarmi un bacio, bellissima. Da allora ho pensato molte volte a quella sera, alla signora Argentina, l'Argenta, alla finestra; aveva nel sorriso una contentezza semplice, possibile e la risolutezza di assecondare la sua voglia di vivere, come una gioia, come un dovere.


La curiosità




Un viso fiammingo emerge da una tavola dipinta. Appartiene alla figura alata di un arcangelo che se ne sta silenzioso e "danzante" nella penombra della cripta di una cattedrale sarda. Mi colpisce al primo sguardo perchè mi ricorda un altro volto, che ho ammirato più volte a Palazzo Bianco in Strada Nuova, a Genova. Si tratta della così detta " Madonna dell'uva ", pannello centrale di un polittico dipinto da Gerard David nel primo decennio del 1500 per un committente genovese e conosciuto come il Polittico di San Gerolamo della Cervara. Possiedo un bel libro, una raccolta di saggi intitolata " Pittura fiamminga in Liguria secoli XIV - XVII ", curata da Piero Boccardo e Clario Di Fabio per Silvana Editoriale e ricordo che a pagina 58, a fronte del saggio di Di Fabio sul Polittico della Cervara, troneggia a tutto campo la Madonna dell'uva, dal viso umile, consapevole, molto simile nell'espressione a quello dell'arcangelo sardo. Vado a prendere il libro dallo scaffale e cerco la pagina: gli scambi commerciali fra Genova e le Fiandre.....la Loggia dei mercanti genovesi che già dal Duecento si erano stabiliti a Bruges....il committente Vincenzo Sauli, politico genovese molto legato alla corona di Francia e impegnato in continui viaggi diplomatici in Europa...




La cattedrale in cui è conservato il dipinto sardo si trova in un borgo di circa 5800 anime, arroccato in modo davvero particolare ai piedi di un antico castello. Posso visitarlo solo virtualmente, attraverso immagini o al massimo maps, ma sebbene da così lontanto l'aspetto di questo borgo mi ricorda in modo impressionante la mia Regione, anzi la mia riviera, che è quella genovese di levante: coste alte, borghi abbarbicati in bilico su un mare montaliano " che spalanca ampie gole e abbranca rocce ", da cui emergono scogli di ardesia scura, di rosso diaspro, che sembrano bastioni di città fortificate. Il castello, oltretutto, è stato costruito dai Doria. Il paese ha nome Castelsardo, la cattedrale è intitolata a Sant'Antonio Abate, la figura alata è l'Arcangelo Michele e l'autore del dipinto è un misterioso personaggio, di cui non si conosce la vera identità, unanimemente conosciuto come il Maestro di Castelsardo. Sì, ma cosa ci fa un viso fiammingo nella cattedrale di un borgo sardo arroccato attorno a un castello genovese? Questa domanda circa un anno fa ha fatto del dipinto di Castelsardo una porta e della mia curiosità il gesto cauto ma molto motivato di socchiuderla. Oltre la soglia c'è un tesoro immenso. Sto cercando da quel gesto in poi di trascriverne tutta la ricchezza, di delinerare una mappa che mi permetta di orientarmi in essa, anche se ho già capito che non c'è alcun forziere da disseppellire sotto la x di un punto da decifrare: la mappa è la Sardegna intera e la Sardegna intera è il tesoro, affatto nascosto, da scoprire.


Le Chevalier?...

Diego Velasquez


  ...voi sapete quel che fa! 


Bryn Terfel
"Madamina, il catalogo è questo..."
aria di Leporello 
da Don Giovanni di W.A.Mozart
Neveratime
 

" Una certa persona "


Ieri ha preso il via la novantaseiesima edizione del Giro d'Italia, con mia grande gioia perchè seguo questa corsa sin da quando ero bambina e andavo a veder passare Gimondi sulle curve del Bracco. Ieri mattina però, all'entusiasmo con cui mi accingo a seguire i notiziari e le dirette dalla corsa, si è aggiunta una tristezza che non ci ha messo molto a diventare indignazione: stavo ascoltando distrattamente un GR, forse l'Uno, quando mi ha colpito come un pugno allo stomaco una breve dichiarazione di uno dei partecipanti, un ciclista italiano di cui purtroppo non ho potuto ascoltare il nome. Raccontava di un' edizione precedente che si correva su una delle salite di questo Giro e nel descrivere le difficoltà dell'arrampicata, delle pendenze e delle insidie del percorso ha aggiunto che al tutto si era unita, allora, l'insidia della presenza di "una certa persona". Il tono con cui questo sinonimo così vago eppure proprio per questo così esplicito è stato pronunciato esprimeva rispetto, ammirazione, ovvia superiorità della certa persona in questione, ma nessun nome è stato aggiunto alla dichiarazione, nessun soprannome che rendesse in qualche modo merito e onore al campione in questione. Il giornalista non ha aggiunto altro, ma ha tagliato l'intervista proprio in quel punto, facendo terminare il servizio su quel " una certa persona", che a quel punto ha assunto un enorme peso, una forza quasi deflagrante. Bravo. Alla tristezza improvvisa, immediata, per l'ennesimo cedimento alla sistematica e continua censura della memoria e del talento di Marco Pantani, si è aggiunta l'indignazione, feroce, quasi difficile da controllare. Mi sono tornate in mente le molte parole, volgari e miserabili, assunte così facilmente dal gergo nazionale quotidiano in questi anni: i bunga bunga, i porcelli legislativi, i vaffa moralizzanti, i dicotuttoeilcontrariodituttotantoèuguale. Poi ho pensato a Marco Pantani. Non solo come uomo, ma come parola. Manca tantissimo questa parola nel linguaggio di oggi. Manca poter attendere il periodo dell'anno in cui sentirla risuonare da ogni schermo, da ogni radio e in ogni lingua del mondo. Manca sentirla pronunciare e far rimbalzare su di essa tutti i paragoni possibili, disponibili, per gustarne il buon sapore di vera umanità. Per questo va detta ad alta voce, pronunciata in ogni occasione possibile. - Chi è Marco Pantani? - ha chiesto mia figlia, incuriosita dal calore della mia reazione. Le ho risposto descrivendole quello che di Pantani ho visto con i miei occhi. Sul resto non posso dire niente, non ho potuto vedere niente con i miei occhi. Avevo la voce emozionata nel raccontarle di quando, al Giro del 2000, sul colle dell'Izoard fece da gregario a Garzelli, dimostrando l'umiltà di cui solo un vero campione dispone e quando ho terminato il racconto era emozionata anche lei. Credo che non dimenticherà questo nome, Marco Pantani. Per uno che non ha il coraggio di pronunciarlo, uno che lo trasmetterà in un tempo ancora da venire. È già molto. - Perché non hanno detto il suo nome? - ha chiesto ancora mia figlia. Non le ho ancora spiegato che in Italia basta "non dire" per essere certi che molte cose siano dimenticate. In compenso basta ripetere spesso altre parole, perché ci si convinca che esistono e appartengono alla coscienza dell'intero Paese. - Credo proprio che sia per imbarazzo - ho risposto. - Certe parole esprimono così tanto che ci vuole molto coraggio per poterle pronunciare. -


La meraviglia

Agnolo Bronzino
Ritratto di Eleonora da Toledo e di suo figlio
Giovanni de' Medici
(particolare)


Qualche giorno fa, visitando il blog di un caro amico, ho avuto il piacere di leggere un post davvero bello: la descrizione di una giornata di divertimento, di riposo, trascorsa in un luogo affascinante che ospita regolarmente mostre di pittura di notevole interesse. La descrizione in questione è deliziosa, perchè fatta filtrando i momenti della giornata attraverso le sensazioni, la percezione della bellezza e del piacere di osservare, ma soprattutto di meravigliarsi. Non ci sono in essa particolari riflessioni sulla meraviglia, solo deliziosi appunti scritti sotto le immagini che riproducono i dipinti che fanno parte della collezione conservata in questo luogo splendido, o scorci del parco che ne è parte o ancora di un pranzo squisito ed appagante che chiude degnamente il post predisponendo alla gioia di vivere. Di solito quando leggo i post dei miei amici non mi soffermo mai sui commenti che ricevono, perchè li considero diretti fondamentalmente agli autori, però per il blog di questo amico faccio un'eccezione, perché i commenti ai suoi post sono parte integrante del piccolo progetto che ogni suo articolo rappresenta e ne sono di certo il completamento. Qualche giorno fa quindi, un commento a questo suo delizioso post mi ha colpito seriamente e mi ha portato a fare una piccola riflessione. La persona che lo ha lasciato diceva di avere così tanta arte a sua disposizione da non meravigliarsi facilmente, e tuttavia rimarcava un aspetto del post dichiarando di gradirlo molto. Questa affermazione mi ha fatto pensare alla meraviglia. Quanto sono capace di meravigliarmi, e perchè? Mi sono resa conto che la meraviglia, per me, è una sorta di processo organico inarrestabile e che la considero assolutamente propria di un organismo sano. Un po' come la crescita delle unghie o la comparsa delle rughe. La meraviglia, ad un certo punto della crescita di un individuo, deve affermarsi stabilmente come un carattere somatico: uno dei colori definitivi dell'anima, immutabile come quello dei capelli. Certo i capelli, anche precocemente, perdono il loro colore per assumere una tonalità di grigio; ciò spingerebbe a ulteriori riflessioni sul rapporto fra la meraviglia e il tempo, ma non sono ancora in grado di esporle, ci sto lavorando. Tornando alle mie riflessioni certe, non sono d'accordo con chi sostiene che sia importante mantenere sulle cose, sul mondo, uno sguardo meravigliato nel modo di quello di un bambino. Questo avrebbe senso se io rimanessi bambina per sempre, ma fortunatamente non è così. Dico fortunatamente, perchè tutte le età, le fasi di crescita del corpo e della mente riservano sorprese incredibili, a saperle vedere. Meravigliarsi come un bambino è facile per un adulto: si fa in modo. Ma se si volesse percepire le cose con l'inconsapevolezza del bambino, si scoprirebbe che non è possibile, dato che l'adulto sano è inevitabilmente consapevole. E allora? La meraviglia dove se ne va? La si conserva come ricordo della propria innocenza oppure è possibile coltivarla e assecondarne i mutamenti? Io credo alla seconda ipotesi. L'intenzione nella stesura di questo post è un elogio, di più, un'ode in prosa alla meraviglia consapevole. Il commento, prezioso per me, letto sotto il post del mio amico mi ha fatto riflettere proprio sulla consapevolezza. Forse questa e meraviglia non possono coesistere? Forse una annulla l'altra? Per quanto riguarda me, riesco da tempo a individuare un istante, subito prima che qualcosa mi catturi e mi porti con sé per tutto il tempo della meraviglia: è l'istante in cui so che sto per avvicinarmi a qualcosa che mi stupirà. La consapevolezza però si concentra lì, in quell'istante: io so che mi meraviglierò e saperlo mi consola, mi commuove, esprime fortemente un bisogno che so di avere e l'attesa della sua soddisfazione. Passato quell'istante non mi chiedo altro. Mi tuffo nella bellezza con estrema fiducia e mi lascio sorprendere. Deduco che forse la meraviglia altro non è che il desiderio di essere meravigliati, che si può esprimere in cento altri modi, ma passivi. Meravigliarsi permette di agire in questo desiderio, di governarlo ed è questa la consapevolezza vera, la maturità, la gioia che non è dato provare ai bambini, i quali si limitano a lasciarsi percorrere da "qualcosa" che non sanno definire nè fermare. Il commento cui faccio riferimento mi ha regalato anche un'altra riflessione, che per comodità traduco in un'immagine, avvisando chi leggerà che è un'immagine davvero triste, sconfortante persino. È l'idea che possa esserci chi, circondato da forme che portano l'animo umano a meravigliarsi, trasformi la propria consapevolezza di predisposizione alla meraviglia in controllo della stessa, assumendo una posizione talmente dominante in quell'istante così razionale che la precede, da spegnerne la voce e la luce, da umanizzarla, ma in senso triste, vuoto, inutile, come fanno spesso gli esseri umani con gli animali loro compagni. Incontro ogni giorno una signora che in inverno passeggia con un terrier vestito di un piumino imbottito color argento, dotato di cappuccio.