La penultima fiaba



:- Mamma, quali sono le tue fate preferite? - La vocina, che mi parla di fiabe da qualche anno a questa parte, sta cambiando ancora. Si sta facendo più profonda, più forte e non lo sa. Così come non sa ancora che forse queste sono le sue ultime domande sulle fate, gli elfi, i principi azzurri, che presto saranno messi via, insieme alle bambole. - Ti confesserò un segreto: io non ho mai amato le fate - La vocina lascia il posto ad un sospiro stupito, ma non troppo - Davvero? Perché? - e subito dopo se ne sta zitta, come per sottolineare quanto ci terrebbe ad una risposta chiara e dattagliata. È evidente che ritiene sia impossibile non amarle. - Le fate le ho sempre interpretate come.....mamme che fanno promesse sapendo di non poterle mantenere. Promesse futili, aggiungo. Prendi ad esempio la fata madrina di Cenerentola. Cosa fa in definitiva, se non regalare a Cenerentola un'illusione? Io però mi sono sempre chiesta, ma era proprio necessario? Non avrebbe potuto, la fatina, insegnare a Cenerentola tutto quello che sa, aiutarla a muovere i primi passi...invece di far apparire un abito che non esiste, una carrozza che non esiste? - La vocina tace, interdetta. - Crescendo poi si pensa che la delusione più grande sarà scoprire che il Principe Azzurro non esiste, ma non è così. Almeno non è stato così per me. Il Principe Azzurro di Cenerentola è il personaggio più reale dell'intera fiaba. Lui è davvero un Principe, che davvero si innamora di Cenerentola e quando allo scoccare della mezzanotte lei fugge via, lui rimane con una scarpina e decide di cercare la ragazza amata che l'ha perduta scendendo la scalinata. Cerca quella ragazza, quel piedino, non colei che possiede l'altra scarpina. Cerca un piedino scalzo. Questo è molto reale, oltre che principesco... - la vocina ride di gusto, adora i miei giochi di parole, adora giocare con ogni cosa. - Allora il Principe Azzurro in realtà esiste! - conclude esultante. - Certo che esiste. Non è troppo facile riconoscerlo, ma esiste eccome. Esistono uomini che guardano la sostanza vera delle donne, la loro intelligenza, la loro sensibilità. Esistono uomini che sanno raccogliere le impronte che le donne lasciano dietro di sè e attraversare oceani e deserti per ritrovare il piedino che le ha lasciate. Le fatine, invece, quelle non esistono davvero. Non nella realtà. Non le troverai sulla tua strada. Però è logico che ti piacciano così tanto. - La vocina tradisce tutta la sua attenzione incalzandomi con un prontissimo - Perché? Perchè è logico che mi piacciano così tanto? - 
-Perché sono parte di te. Rappresentano la tua immaginazione. Per questo non le troverai più crescendo, non come le conosci ora. Da grande non verrà nessuna fatina a trasformare con la magia i giorni polverosi, grigi più della cenere, in splendide giornate di sole. Però, da grande, se avrai conservato intatta l'immaginazione che adesso ti fa credere alle fate, allora lo farai tu stessa, o meglio sarà la tua fantasia a fare le magie più incredibili. - La vocina tace soddisfatta e per un momento ha negli occhi il suo domani; poi torna a parlare con uno dei suoi amici pelosi, ridendo delle segrete risposte che escono di certo dal suo musetto di stoffa. Li guardo e penso che fra poco tempo mi chiederà la sua penultima fiaba da piccola, poi si sveglierà una mattina e sarà davvero domani. - Guarda questa foto bellissima che il signor Ivo Coduri mi ha dato il permesso di pubblicare. Ti piace? - La vocina si avvicina e guarda attentamente la splendida foto sullo schermo del pc quindi torna a sedersi accanto al suo amico - Bella, mà. Scrivi un racconto, dai, di animali del bosco che abitano fra quelle rocce e degli umani che sono in pericolo, e gli animali li salvano e li portano nella loro tana, che è proprio dietro le rocce, dove si vedono gli alberi... - Poi si dimentica di me e va a rovistare nel mare di cinfrusaglie che lei considera indispensabili. Oggi mi ha insegnato che forse il momento della penultima fiaba si può rimandare, di molto. L'ultima, poi, bisogna proprio ascoltarla il più tardi possibile.



Le parole

Photo  Jarda 75


Mi hanno rubato le parole. Deve essere per questo che ho così tanto bisogno di ricordare. Nella mia memoria personale quasi tutte le parole che ogni giorno mi vengono scagliate contro dai media e da chi ne dispone mantengono il loro significato originario, che a me sembra essere più comprensibile e calzante. Penso a vocaboli come povertà, solidarietà, speranza, pace, amore, Italia, democrazia, famiglia, onestà, uguaglianza...Solo ieri ho ascoltato nel corso di un telegiornale la notizia circa i buoni propositi di un probabile capo di governo a proposito della legge elettorale: il punto nodale della notizia era la parola "cambiamento", si parlava della necessità di cambiare una legge elettorale inadeguata dal punto di vista democratico. Questa legge viene tutt'ora citata con un appellativo ben preciso: legge porcellum. Nessuna voce dai media ha mai calcato su questo appellativo, per evidenziarne la volgarità. 
Le parole non sono più mie. Entrano in flussi prestabiliti appena uscite dalla mia bocca: se avvicinandomi ad un gruppo di amici chiedo di Silvio, la conversazione prende subito una certa piega: è come se le parole fossero portatrici sane di un virus, che attacca i concetti espressi dalle parole stesse, modificandoli fino a condurre il discorso verso una conclusione mai vicina a ciò che si voleva dire inizialmente e sempre di bassissimo profilo. Così, in questi giorni di teatrino forzato, cui cerco tuttavia di sfuggire a gambe levate, ho deciso di riprendermi il significato delle parole. Non è difficile, dato che la mia memoria personale ne è piena. Dovrebbe essere sufficiente affiancare quello che custodisco io a quello diffuso intorno: l'accostamento stridente mi aiuterà a decidere con quale dei due lasciar uscire dalla mia bocca le mie parole. Un po' come si fa con i vestiti e i loro colori. Legge porcellum è un accostamento davvero di pessimo gusto, capace di offendere il più eccentrico degli stilisti, non solo di moda. Equivale ad uscire in abito da sera, calzini senza elastico e ciabatte a forma di gnometta tirolese. Posso fare di meglio.

La cosa bella di questo esercizio di recupero stilistico, di miglioramento, è che ogni individuo può farlo a sua volta e in modo del tutto personale. La memoria collettiva di una Nazione è costituita dalla memoria individuale dei singoli che ne fanno parte. È un universo multicolore, ricco, creativo, in cui le parole sono fermate, appuntate su pareti e pannelli ideali con l'aiuto di facce, circostanze, avvenimenti simili, legati da un filo comune, ma sempre diversi e personali. Lascio qui una parola molto ascoltata in questi giorni, la scrivo con il significato che la mia memoria ha raccolto e conservato: è un significato profondo e incisivo che restituisce ad essa, a questo nome, tutta la sua bellezza.


Silvio

Silvio era uno zio di mia madre. Da piccolissimo il suo viso aveva tratti così dolci da mettere in imbarazzo i suoi genitori, che per non dover fornire spiegazioni circa quella femminiltà così mal riposta lo vestirono da bambina, lasciando che i suoi capelli crescessero in fluidi boccoli lucenti. La poliomielite tolse a tutti il dubbio del poi e Silvio crebbe finalmente da maschio, ma dentro un corpo disordinato, incline a deformarsi un po' ogni giorno, disubbidiente alle leggi naturali che regolano la crescita e lo sviluppo di un essere umano. Cresceva deforme nel corpo, ma nella mente era bellissimo, perfetto più di una scultura di Fidia. Silvio visse la seconda guerra, il fascismo, i rastrellamenti, con estrema lucidità. Quando le camicie nere vennero a prendere suo fratello e quasi uccisero sua madre per il dolore, lui reagì come un leone, certo che quelli che aveva di fronte fossero delinquenti comuni, ignoranti, ottusi, superiori solo per numero e capacità fisica. Nessuna di queste considerazioni lo trattenne tuttavia dal minacciare di ucciderli tutti, se non fossero usciti immediatamente da casa sua. Lui sapeva come trattare con le deformità. Ci era abituato. Era abituato a quelle gambe che non correvano mai a comando, alle mani che facevano altri percorsi prima di prendere un bicchiere, alle risate di quelli che non capivano e che la paura e l'ignoranza rendeva intolleranti, cattivi. Anche sua sorella a volte lo era. Silvio superò la sua infanzia apparentemente femminile, la guerra, la perdita della sua sorellina prediletta senza prendersela mai con nessuno. Aveva imparato che era inutile lottare contro ciò che non si muove, ma dentro di sè cresceva forte, intelligente, coraggioso oltre i limiti del suo corpo indisciplinato. Alla fine della guerra i partigiani, che avevano imparato a distinguere perfettamente l'uomo che si nascondeva in quel corpo infagottato, lo salutarono dicendogli che un mulo di nome Badoglio (bellissimo accostamento!) era stato legato ad un castagno in un punto preciso del bosco, più giù verso Cassana e che, se lui voleva, quel mulo era suo. Lui ovvimente accettò. Era un mulo molto alto, difficile da montare, una vera "barriera architettonica", ma Silvio ci saliva su passando per la propria intelligenza, così lo accostava ad un poggio o ad un sasso grande e saliva senza troppe difficoltà. I partigiani veri, quelli che avevano vissuto su quei monti o perso la vita lassù, avevano un debito di riconoscenza verso chi abitava quella casa, la casa di Silvio: vi erano stati sfamati, sostenuti, incoraggiati. Nelle settimane successive alla fine del conflitto i sopravvissuti scendevano giù come creature invisibili che avessero improvvisamente preso sembianze umane per essere presenti al miracolo per cui tanto avevano dato. Non tutti però erano partigiani. Alcuni, troppi, erano ladri, disonesti, opportunisti, che speculavano sulla Resistenza per guadagno personale. Erano riconosciuti da tutti, tacitamente ed erano gente del posto. Uno di questi, subito dopo la guerra, fu assunto dal Comune come vigile urbano e la sua funzione preferita era il controllo dei muli, che allora erano ancora un aiuto molto valido alle attività umane e la cui cura sottostava ad una legge fascista che prevedeva multe salatissime se il manto dell'animale veniva trovato anche solo leggermente scalfito. Alla fine della guerra, malgrado i bombardamenti, Levanto era ancora lì; il sole era ancora lì, insieme al cielo azzurro; Badoglio era ancora lì, col suo basto di carbone e Silvio in groppa e il "vigile urbano" andava loro incontro con aria severa ed arrogante, nella piazza principale del borgo, come se la guerra non ci fosse mai stata, come se niente esistesse oltre quella nuova divisa e quel mulo partigiano da controllare con velenosa attenzione. Levanto era abituata ad essere teatro: lo era stata di una guerra recente e non ebbe difficoltà ad essere palcoscenico della scena che stava costruendosi quella luminosa mattina. C'era anche il pubblico, che aveva già pagato, in silenzio, e che fino ad allora non aveva ancora potuto godere di quella parte dello spettacolo in cui il tiranno viene ridicolizzato e spinto fuori scena a pedate nel sedere. Così ci fu un silenzio da prima alla Scala, quando il "vigile" intimò a Silvio, "il deforme", "il debole", di scendere dal mulo perchè doveva essere verbalizzata una sanzione. Silvio sapeva che per scacciare a pedate un malfattore non serve scendere troppo in basso, così rimase esattamente dov'era, in groppa a quel mulo altissimo e fedele, con una cinghia in mano, di quelle con cui si fissano i basti, una cinghia provvidenziale. Rispose alla richiesta del "vigile" con uno sguardo che tradiva tutta la sua esultanza e gli si accostò declamando ad altissima voce, per il pubblico in attesa, che finalmente era giunto il momento di regolare i conti, di ricevere la giusta ricompensa per la "nobile azione partigiana" compiuta a beneficio della libertà e della democrazia e a rischio della propria vita. La cinghia fischiava in aria con un suono cadenzato, quasi dolce, in quella piazza silenziosa e assolata. Nessuno parlò, nessun applauso coprì gli striduli strilli del "vigile" in fuga, solo si poteva vedere sulle facce della gente, alla fine di quella scena, un sorriso, triste, di consolazione, di recuperata normalità, come se per i presenti almeno uno dei pezzi mancanti al concetto di giustizia fosse finalmente tornato al suo posto. Poi la giustizia, seppure con le inevitabili lacune, tornò davvero e con essa la pace. Nessuno, nemmeno Silvio, fu più costretto ad affrontare i fantasmi dell'incubo orribile così a lungo sognato.



" Più volte l'ho vista bambina..."

Foto gentilmente concessa da Maurizio Manzo


LE SCHEGGE

Mamma da bimba usciva presto
all’arresto della sirena
tra il fumo sconquassato
passato il frastuono
tuono umano insano.

Più volte l’ho vista bambina
raccogliere schegge ancora
calde che scioglievano la cera
del giorno creando
un felice contorno.

Se inciampava rideva
e mi guardava
contenta con le sue calzine
bianche e le ginocchia
sbuffate di calcinacci.

Il giorno sul bastione
S. Croce era più luminoso
una volta immerso nel porto
il colore della guerra
il dolore di qualcuno.

Mamma allora camminava
come fosse una festa
d’estate che una parte
del cielo concedeva mentre
l’altra ancora tremava.

Aveva lo stesso sguardo
di quando mi portava
a scuola e facevamo una
corsa tenuti per mano
un passo dopo l’altro

fino all’affanno, il suo:
mamma è già vecchia
e non ce la fa più a correre,
allora aveva trentasei anni
e io le strattonavo il capotto

e non per riprendere a correre
ma per rimproverarla:
per me non poteva invecchiare
né mai poteva consumarsi
come una qualsiasi altra madre

la mia mamma immortale.


Maurizio Manzo



Testi di Maurizio Manzo in rete


Il senso di un blog




Caro Massimo, 

capisco e rispetto profondamente la tua decisione di chiudere. Ci ho pensato tante volte anch'io, nel tempo. Stavo in effetti per risponderti, per esprimerti la mia comprensione, quando una tua frase mi ha costretto a riflettere una volta di più. Una frase, ma soprattutto una parola: senso. Tu l'hai usata chiaramente con l'accezione di "significato", ma a me ha suggerito un altro aspetto, se possibile ancora più importante riferito ad un blog. Senso vuol dire anche direzione. Ho riflettuto molto da quando scrivo qui, sul mezzo che mi permette di farlo e sull'intento che mi spinge ad insistere. Le considerazioni sono state di volta in volta diverse, così come le aspettative. L'unica cosa che davvero non ho mai tenuto in considerazione sono i parametri di google per classificare il mio blog: il numero dei visitatori, la frequenza dei commenti, l'urgenza di entrare a far parte di una cerchia per farsi conoscere, per rendere il blog visibile. A sostegno di questo c'è il commento di Achab, il primo commento che ho ricevuto "da fuori"; ricordo quando è arrivato, gentile e molto reale, semplice: mi diede subito l'impressione che a scriverlo fosse stata una persona vera. Da quel momento, pur con tutte le messe a fuoco successive, ho sempre tenuto quelle parole presenti e con esse la convinzione che ne basta uno, uno solo, di commento, di passaggio, per giustificare la mia presenza qui. Invece i commenti e i passaggi sono stati e sono tutt'ora molti. Sono stata fortunata in questo perché sono da sempre pensieri scritti col cuore sulla punta delle dita, da persone che hanno voluto e vogliono lasciare qui una traccia delle loro emozioni. Questo traffico inaspettato di parole "da fuori", inaugurato dal mio amico Achab, che abbraccio col cuore, coerente con quel primo segnale di vita, ha nel tempo generato un moto. Una direzione. Un senso. In quello, nel traffico bellissimo di considerazioni, di intuizioni, di gratitudine, posso distinguere ogni nome, ogni persona che ne ha fatto e ne fa parte. In quello ho conosciuto la presenza cara fine a sè stessa, le passioni di molti, come la fotografia, la musica, la propria città, la poesia e la scrittura, il proprio mondo; ho potuto stringere un po' di più alcune delle tante mani che mi hanno toccato qui, scoprendo i loro sogni, le loro preziose ed uniche sfumature che rendono tutti diversi, indimenticabili. Ho potuto conoscere te, attraverso i tuoi "post", orrenda parola per definire le tue idee, il tuo linguaggio interiore, che hai portato in uno spazio del tutto simile a questo, facendone un posto unico, che dice come sei. Allora, con tutto il rispetto possibile per i tuoi sentimenti e per la tua decisione, mi permetto di scriverti che forse il senso è questo. Non è la frequenza, che io definisco sempre fisiologica, del nostro scrivere sul blog a stabilirne l'importanza; non è la costanza della nostra presenza a determinare la logica dell'esistenza di un non luogo come questo. Il senso vero di un posto come questo, che non esiste eppure fa coesistere persone ed emozioni, sono le tracce di vita di chi è passato da qui e di chi passerà. Le cose che scrivo, che ho scritto e "costruito" qui, sull'onda di un bisogno mio di esistere in altro modo, di esprimere cose che altrove non saprei dire, si sono completate con le parole di chi ha letto, ascoltato, pensato e sorriso. Le cose che hai scritto, le poesie scelte in quel particolare momento, i dipinti, le immagini, abbinati ai pensieri sull'onda delle tue emozioni, delle tue intenzioni, sono un bagaglio prezioso che in un certo senso appartiene anche a me e a tutti coloro che, come e più di me, hanno saputo esprimerti ciò che hanno ricevuto dalle tue pagine. Ti abbraccio come ho fatto sempre e come farò ancora da qui, ma ti prego di leggere in questo abbraccio, oltre l'affetto sincero e istintivo che racchiude, un piccolo dispiacere al pensiero di non poter più entrare fra le pagine di quel libro che ho sfogliato sempre con grande piacere. Sono tornata spesso a rileggerlo ultimamente, ed è stato come aprirlo per la prima volta: perché sono cambiata e le tue pagine hanno ancora molto da dirmi. Vedi Massimo? Nel mio post precedente ho citato Whitman, ho illustrato con un dettaglio del Veronese, ho incollato la musica di Elisa. Chissà quante altre persone hanno scelto le stesse cose, la stessa musica, lo stesso dipinto, la stessa poesia. Tu pure, ami Elisa e Whitman. Ecco cosa mancherà: il tuo modo di dire quanto e perché.

Prendi, ti prego, questa lettera come un lungo abbraccio. Un abbraccio esigente delle tue idee e del tuo mondo, ma pieno di gratitudine, in cambio. Questo è il senso. 
Tanti baci.
red

Eppure, sentire.

(Particolare)
Conservato presso la


È come quando da piccoli si fa un tondo, o un quadrato, chiusi ed è la casa, il mondo. Un anno nuovo è così: è tutto quello che sono e non sono; quello che vorrei e non vorrei; quello che ho e non ho. Sono tutte voci di un dialogo interiore, che sbatacchia un po', che sospinge, che trattiene. Il silenzio non c'è mai e l'ho cercato tanto; però forse, il silenzio non c'è perchè non serve. Perchè la vita, per essere vissuta, deve somigliare forse ad una sala affollata. Perchè, forse, vivere è sviluppare la capacità di sentire, nel rumore di una stanza stipata di gente, ogni voce ed ogni inflessione del suo parlare. Come in quella magnifica poesia di Whitman, A Glimpse: l'amore dolcissimo, lieve, innocente, colto nell'atmosfera greve di una stanza in cui si distinguono tutte le voci, le identità, la sofferente umanità. Tante sono le stanze affollate: la mia, la tua...Tante sono le voci e il loro peso.  Vorrei questo anno esattamente così ed io in mezzo, sospinta e trattenuta, faticare eppure sentire.

 A GLIMPSE


A GLIMPSE, through an interstice caught,
Of a crowd of workmen and drivers in a bar-room, around the stove,
late of a winter night - And I unremark'd seated in a corner;
Of a youth who loves me, and whom I love, silently approaching, and
seating himself near, that he may hold me by the hand;
A long while, amid the noises of coming and going - of drinking and
oath and smutty jest,
There we two, content, happy in being together, speaking little,
perhaps not a word.


Walt Whitman


Uno scorcio, colto attraverso un interstizio,
D'una folla di operai e autisti nella sala di un bar, attorno alla stufa,
tardi una sera d'inverno. Ed io, inosservato seduto in un angolo;
Di un giovane che mi ama, e che io amo, che si avvicina silenzioso, e si siede accanto, tanto che può tenermi per mano;
Un lungo istante, in mezzo al rumore dell'andirivieni, del bere ed imprecare e dello scherzo volgare,
In quello noi due, contenti, felici nell'essere insieme, parlando appena, dicendo forse neppure una parola.

Traduzione, red


Buon Anno a tutti